DVOŘÁK Rusalka O. Bezsmertna, D. Korchak, E. Guseva, J. Park, O. von der Damerau, S. Stoyanova, J. Rajniš; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Tomáš Hanus regia Emma Dante scene Carmine Maringola costumi Vanessa Sannino
Milano, Teatro alla Scala, 13 giugno 2023
Toh, che sorpresa (almeno per me): una regia di Emma Dante senza nessun riferimento visivo alla sua Sicilia: e anzi, nell’allestire il capolavoro operistico di Dvořák che debuttava, con un comodo tempo di attesa di 122 anni dalla sua prima rappresentazione, alla Scala, la regista crea uno spettacolo che è un gioiellino di grazia, ironia e teatralità. Perché se è sparito il lago che dovrebbe farla da padrone nel primo e terzo atto, al suo posto troviamo l’interno di una sorta di cattedrale diroccata, un po’ Romanticismo nordico e un po’ Walt Disney (senza tralasciare Tim Burton, altro nume tutelare di questa Rusalka), con un’ampia vasca, ove le ondine, novelle adepte di Esther Williams, sguazzano e si muovono con coreografata grazia. E sull’altare di suddetta chiesa la strega Ježibaba, appena uscita da Biancaneve, prepara la pozione che renderà Rusalka un’umana (privandola quindi dell’ampia dotazione tentacolare) come uno scaltrito barman farebbe con i cocktail più alla moda. D’altronde, la Dante sembra voler tralasciare, o accennare solo di sfuggita al sottotesto psicanalitico dell’opera, al centro invece dell’indagine di altri registi, puntando su una caratterizzazione favolistica, e sottolineando il tema della diversità, dell’inconciliabile diversità tra il mondo umano e quello acquatico: e l’ironia, ben presente nella musica, è parte essenziale.
Una Dante parzialmente de-dantizzata, eppure quasi mai così godibile, e con la consueta capacità di far recitare benissimo tutti i cantanti e di creare grandi effetti visivi, come l’ascesa di Rusalka, gigantesca e di nuovo tentacolarizzata, alla fine del secondo atto. Sotto la guida di Tomáš Hanus — evidentemente esperto della partitura, ma un tantino enfatico e morchioso nella sua predilezione per sonorità dense e fraseggi magniloquenti — agiva un cast quasi interamente non madrelingua, eppure eccellente, a partire dalle parti più piccole (con veri lussi, come Juliana Grigoryan e Hila Fahima tra le ninfe e Svetlina Stoyanova come Sguattero): sorprendente è stato Jongmin Park, che raramente mi ha convinto nel repertorio italiano, mentre qui univa come non mai velluto della voce, morbidezza del canto e intensità dell’accento, così come Okka von der Damerau era una Ježibaba dalla sorridente terribilità, a tratti davvero spassosa. E la coppia protagonistica vedeva il Principe di Dmitry Korchak, tenore russo dalla squisita eleganza stilistica, dalla tecnica infallibile e dalla musicalità imperfettibile (è anche direttore d’orchestra), accostato all’ucraina Olga Bezsmertna, viceversa meno incline a sfumature e preziosismi (la celebre Canzone alla luna era quindi il momento meno convincente della sua prestazione) ma sempre capace di portare la temperatura emotiva a livelli alti, con un impegno totalizzante nella resa, anche attoriale del personaggio. E l’incisività della sua voce, pur talora un po’ stridente, era di grande efficacia. Gran successo, nei limiti consentiti dal sonnolento pubblico del turno A scaligero: e ora, a quando una Sposa venduta?
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala