MONTEMEZZI L’amore dei tre re E. Stavinsky, R. Burdenko, G. Berrugi, G. Misseri, A. Tanzillo, V. Diaz, C. Isotton, F. Zhou; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Pinchas Steinberg regia Àlex Ollé / La fura dels baus scene Alfons Flores costumi Lluc Castells
Milano, Teatro alla Scala, 10 novembre 2023
Ultimo avanzo non già di una stirpe infelice – come canta l’Edgardo della Lucia — ma della programmazione dell’era Pereira, dopo il rinvio del 2020, causa Covid, arriva finalmente alla Scala il ripescaggio (una volta si diceva “riesumazione”…) dell’Amore dei tre re di Italo Montemezzi, 110 anni dopo la sua prima assoluta, sempre al Piermarini e con la direzione di Tullio Serafin. Premettendo che ogni titolo che permetta di evadere dal repertorio sempre più asfittico dei nostri teatri d’opera (e la Scala non fa eccezione) è il benvenuto, ci si chiede ovviamente se fosse il caso di rimettere in scena questo strano ircocervo musicale, dove nella consueta (almeno per il primo ‘900) ambientazione in un Medioevo cupo e ferrigno si agisce questo singolare ménage à quatre (i “tre re” del titolo, ossia il vecchio, barbarico ma ancora un tantino lubrico, Arcibaldo, basso; il di lui figlio Manfredo, baritono; e il tenore, Avito, sorta di Tristano de noantri; oltre ovviamente all’oggetto del desiderio dei tre, Fiora, moglie del secondo e desiderata da tutti e tre). Su un libretto di Sem Benelli, impregnato del suo tipico dannunzismo degli stenterelli, la musica mostra non solo un mestiere solidissimo, ma un evidente richiamo ai due numi tutelari, Wagner e Debussy, con il lungo duetto tristaneggiante del secondo atto e tutta l’atmosfera impregnata di Pelléas dell’opera intera. E non è un caso che Mary Garden, la prima Mélisande, fu interprete appassionata del ruolo di Fiora, l’unico da lei cantato in lingua italiana: tutte da leggere sono le sue memorie, riportate nel programma di sala (che è ancora più necessario del solito, a partire dal saggio illuminante di Emilio Sala). Musica che mai cede alle lusinghe pseudo-veriste, al facile melodizzare, all’effettaccio volgare; ma che neppure si fa ricordare per qualcosa di memorabile, costituendo quindi una terza via certamente degna di nota ma alla fine infruttuosa. E se proprio si voleva ripescare questo titolo, occorreva contare sul carisma dei quattro protagonisti, particolarmente del basso: che qui latitava completamente. Partita col Furlanetto del 2020 (che avrebbe avuto certo il carattere, forse non più la voce), poi virata sull’improbabilissimo Günther Groissböck, la Scala si è ritrovata a presentare il russo Evgeny Stavinsky, che è un dignitoso professionista, ma che è in questi panni così larger than life si trova troppo largo (si ascolti l’arioso “Italia, Italia” cantato da Siepi nella nota incisione RCA, e si avranno chiari i termini del discorso), e lo stesso vale per il suo connazionale Roman Burdenko (Manfredo), che canta pure peggio (ma non è colpa loro: prendiamo due artisti italiani, magari pure bravi, e mettiamoli a cantare, che so, Semion Kotko di Prokofiev e vediamo cosa ne esce…). Giorgio Berrugi è un tenore delicato, dai bei modi vocali, che tutto avrebbe dovuto affrontare tranne che una parte così tesa e spinta (e difatti nel bel monologo del terzo atto cola a picco), mentre la migliore è certamente Chiara Isotton, che ha il colore, il volume e il temperamento adatti, pur senza far gridare al miracolo.
E difatti i più calorosi applausi li ha presi il veterano Pinchas Steinberg (che è venuto dopo il Rizzi del 2020 e il forfait di Mariotti), assolutamente encomiabile per la capacità di rendere trasparente l’orchestrazione senza privarla di peso specifico, per la flessibilità ritmica e per l’incandescenza degli accenti, senza tracce di facile effettismo: e lo stacco dei tempi, molto comodo (un buon quarto d’ora in più della versione radiofonica del ’50 diretta da Basile, con un sommo Bruscantini), gli serviva a evocare la “tinta” dell’opera e a cesellarne i particolari strumentali. Poco c’è da dire, infine, dello spettacolo firmato dalla Fura: un palco scuro, dominato da infinite catene che pendono dal soffitto (metafora fin troppo banale) e da un praticabile con una lunga scala che, nel secondo atto, evoca le terrazze del castello ma anche la torre di Mélisande, presenza più che mai evocata. Tutto funzionale (non certo a livello acustico…) ma anche banale, per un team teatrale che dopo gli esordi non ha mai saputo veramente rinnovarsi. Applausi di stima, e un po’ frettolosi.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala