WAGNER Der fliegende Holländer A. Kampe, T. Spence, A. Peebo, L, Cortellazzi, S. Youn; Orchestra e Coro del Teatro La Fenice, Coro Taras Shevchenko National Academic Opera and Ballet Theatre of Ukraine,direttore Markus Stenz regia Marcin Łakomicki scene Leonie Wolf costumi Cristina Aceti light designer Irene Selka Venezia, Teatro La Fenice, 25 giugno 2023
Nuova produzione del Teatro La Fenice di Venezia per Der fliegende Holländer di Wagner, quella che unanimemente è considerata la prima opera matura del musicista di Lipsia, la sua prima drastica presa di distanza dall’opera convenzionale, composta su libretto dello stesso musicista e portata in scena a Dresda il 2 gennaio 1843.
La regia è stata affidata al polacco Marcin Łakomicki, laureato in cinema e arti figurative a Łodz e in scenografia a Bologna, la sua prima regia è del 2008 al festival di Wexford oltre ad aver collaborato con Jürgen Flimm all’Otello di Rossini scaligero del 2015. Nelle sue note di regia si sofferma su uno degli elementi, a suo parere, cardine dell’opera: ossia la contrapposizione tra il mondo maschile e il mondo femminile che caratterizzerebbe tutta la storia dell’Olandese volante, l’enigmatico personaggio a capo del vascello fantasma, costretto a non morire e navigare per sempre senza meta fino a che non incontrerà una donna fedele che gli restituisca la pace. Due sessi, due mondi che faticano ad incontrarsi e anzi vivono in profonda contraddizione l’uno con l’altro: l’Olandese cerca un ubi consistam per porre fine al suo eterno vagare; Senta vuole invece evadere da questo mondo, dalla quotidianità che impone alla donna di essere fedele ai suoi compiti di moglie e madre. Cerca una fuga, che forse solo l’Olandese potrebbe darle. Senta pertanto accoglie il suo destino di salvatrice di quell’uomo misterioso, cedendo al patto fatto dal padre Daland con l’Olandese al quale l’ha venduta in cambi di denaro.
La scena si apre su uno spazio claustrofobico, delimitato sul fondo e sui lati da altissimi veli neri ondeggianti al vento, e dominato dal profilo scomposto della prua di una nave. Dietro si staglia una scogliera che vagamente ricorda la Giant’s Causeway irlandese, con le sue colonne esagonali di basalto. I personaggi, nello scarno spazio che rimane, si muovono in maniera innaturale, specie il protagonista che, non è chiaro se per scelta registica o per volontà dello stesso cantante, si atteggia in pose scomposte e plateali che poco si addicono al carattere introverso del personaggio.
Si rivede in scena, poi, l’idea ormai trita dei doppi dei protagonisti, la cui motivazione non è sempre chiara, ma che appare di una certa efficacia quando si comprende che i personaggi in realtà non riescono a trovare un’iterazione con l’altro, ma solo con l’ideale proiezione dei propri desideri. Tuttavia la replicazione di questo modello per tutti i personaggi dell’opera porta alla fine ad un parossismo che confonde le idee e crea smarrimento in chi guarda, specie nel terzo e quarto atto, dove anche l’ambientazione creata dalle scene di Leonie Wolf si fa sempre più essenziale fino all’astrazione.
Sul piano musicale altrettante luci e ombre. Il direttore Markus Stenz imposta la sua concertazione con ritmi serrati e irruenti, che rendono intrigante l’ampia introduzione orchestrale (peccato qualche difficoltà negli assiemi e qualche sbavatura nei fiati), senza che però riesca a delineare con convinzione gli scarti emotivi che punteggiano la partitura.
Tra i cantanti, sicuramente i migliori sono stati il Daland di Franz-Josef Selig, che ha ritratto con grande varietà di fraseggio e naturalezza – per quanto glielo permettesse l’idea registica — il suo personaggio, grazie anche ad una voce timbrata e ben proiettata.
Dell’interpretazione di Senta da parte di Anja Kampe, wagneriana di lunghissimo corso, è risultata ancora ammirevole la tenuta vocale, nonostante qualche difficoltà nei fiati e alcuni acuti un po’ al limite, ma soprattutto la padronanza scenica: la sua è una Senta matura, una donna smaliziata, dal forte temperamento, decisa a scardinare le convenzioni borghesi che la imprigionano. Qualcosa di diverso dall’eroina sognatrice ed adolescente immaginata da Wagner.
Buono, anche se un po’ fragile, l’Erik di Toby Spence e ottimo il Timoniere di Leonardo Cortellazzi.
Quanto al protagonista, il coreano Samuel Youn, non ci è parso all’altezza del ruolo: la voce è robusta e di timbro buono, ma l’emissione è spesso scomposta nel tentativo di risultare efficace nella declamazione, in realtà frantumando il fraseggio in enfasi inopportune con qualche difficoltà anche nell’intonazione. Una prova, peraltro, non assecondata – come si diceva – da un’adeguata presenza scenica.
Ottimo l’apporto corale, diretto da Alfonso Caiani, con l’aggiunta del Coro Taras Shevchenko della National Academic Opera and Ballet Theatre of Ukraine preparato da Bogdan Plish.
Stefano Pagliantini
Foto: Michele Crosera