BIZET Carmen A. Goryachova, M. Sicilia, R. Iniesta, A. Alexeeva, B. Jagde, A. Vinogradov, D. Fersini, E. Casari, L. Dall’Amico, B. Pizzuti; Coro di Voci bianche A.LI.VE, maestro del coro Paolo Facincani Orchestra e Coro dell’Arena di Verona, maestro del Coro Vito Lombardi direttore Francesco Ivan Ciampa regia, scene e costumi Hugo de Ana coreografia Leda Lojodice lighting design Paolo Mazzon projection design Sergio Metalli
Verona, Arena, 22 giugno 2018
Una Carmen all’insegna della tradizione areniana che tanto ricorda quella di non troppi anni fa. Era il 2006, infatti, quando Zeffirelli mise in scena lo stesso titolo perpetuando – ma gli era ampiamente consentito – la propria visione del melodramma come grande e coloratissimo affresco caratterizzato da un horror vacui ormai fuori moda, divenuto il suo marchio di fabbrica. Dodici anni dopo sorprende la messinscena di Hugo De Ana dello stesso capolavoro di Bizet che, se non fosse per la trasposizione – sulla carta interessante – della vicenda agli anni del franchismo e della guerra civile spagnola, è sembrata la riproposizione, per nulla aggiornata, della visione zeffirelliana. Alla faccia degli annunci che promettevano uno spettacolo antioleografico e lontano dal cliché variopinto e folkloristico immaginato dalla tradizione. Le citazioni da Zeffirelli sono tante e tali da sembrare non semplici omaggi al Maestro, piuttosto vere scopiazzature. La gestione del vastissimo palcoscenico è quella del fiorentino: un affollarsi continuo di personaggi, di coristi, comparse, ballerini, di scene e scenette di dubbio gusto (come il gruppetto di preti molestati dalle guardie franchiste e fatti cadere dalle loro biciclette). Un affastellarsi di oggetti di contorno, un andare e venire di cavalli e – questa la novità? – camionette e carri motorizzati guidati da militari in disarmo, bandiere, affiche e grandi teleri richiamanti una Spagna da cartolina a ritrarre la taverna di Lillas Pastia nel secondo atto (quasi identifica all’analogo quadro di Zeffirelli).
Interessante l’idea di aprire l’opera con la fucilazione nella plaza de toros di Siviglia di un partigiano incappucciato (lo stesso Don José dopo aver ucciso Carmen alla fine dell’opera?), come altrettanto azzeccata la visione violenta e quasi barbarica del rapporto tra Carmen e Don José nello svolgimento della vicenda, a partire già dal terzo quadro. O ancora il rapporto d’amore vero e passionale tra Micaela e il brigadiere. Poteva essere meglio sviluppata anche l’intuizione di rappresentare l’accampamento dei contrabbandieri in una indefinita zona di confine, lungo delle altissime reti di delimitazione che ricordavano i tanti muri innalzati negli ultimi anni a difesa delle frontiere. Ma tutto si è limitato ad accenni, a idee irrisolte che avrebbero avuto bisogno di ben altro approfondimento. Perché, invece, non aver avuto il coraggio di spogliare, anziché riempire bulimicamente, lo spazio areniano, e di sfruttare le suggestioni fortissime della nuda cavea in pietra? Magari impiegando con più costrutto, non solo a fini decorativi come è stato fatto, le proiezioni in videomapping sulle scalinate dell’anfiteatro romano (vedere un maestro di questa tecnica, come Robert Lepage, cosa ha saputo fare).
La serata è stata poi appesantita – non per colpa del regista, questa volta – da un ritardo inaccettabile di oltre mezz’ora per le misure di sicurezza con cui sono stati accolti il presidente del Senato Casellati e due ministri, oltre che per la cerimonia di deposizione in platea di un mazzo di rose rosse – 32 come i femminicidi compiuti in Italia dall’inizio dell’anno -, il discorso del nuovo sovrintendente Cecilia Gasdia ad apertura della stagione e il ricordo di Tullio Serafin a 50 anni dalla scomparsa, la proiezione di una sezione non brevissima di un’Aida diretta dal maestro veronese e – come se non bastasse – la lettura del messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (anche in traduzione tedesca), il tutto chiuso con l’Inno di Mameli: un po’ troppo per i nostri gusti, e quelli di parte del pubblico rumoreggiante.
Ma l’Arena è così: prendere o lasciare. E dunque chiusura della serata all’una e oltre di notte tra il fuggi fuggi generale. E un freddo insolito per la stagione. E la musica? In generale si può dire che si lasciava ascoltare – per quanto l’acustica areniana sia sempre alquanto problematica: il direttore Ivan Ciampa ha cercato finezze strumentali e sonorità interessanti, ma più adatte al chiuso di un teatro che agli spazi all’aperto, sollecitando l’orchestra ad una resa più vibrante solo in alcuni momenti, come nell’infuocata Chanson Bohème o nel finale. Tra i solisti solo il tenore americano Brian Jagde ha saputo creare un personaggio vocalmente e scenicamente credibile in virtù di una notevole presenza scenica e di una voce robusta, scura e timbrata, capace di farsi apprezzare per un fraseggio vario ed interessante, soprattutto nei momenti drammatici (buona l’aria del fiore, peccato il falsetto con cui ha risolto il si bemolle acuto). Accanto a lui si è distinta la perfettibile Micaela di Mariangela Sicilia, cantata con il cuore in mano, finalmente non pupattola asessuata ma donna innamorata. Una parte vocalmente difficile, risolta dignitosamente e ben recitata, anche nel difficile passaggio in cui ha dovuto cantare in sella alla bicicletta. Della Carmen di Anna Goryachova c’è da dire che, se risolta e affascinante risultava la padronanza scenica e l’avvenenza della figura, vocalmente la parte non si adatta alle sue attuali capacità, essendo il timbro piuttosto chiaro e artefatto nei gravi e assai carente la sensualità di cui invece gronda l’intero ruolo. Il fraseggio aveva qualche buona intenzione, ma si capisce che c’è ancora tanto lavoro da fare perché il mezzosoprano russo possa impadronirsi della parte. Discreto l’Escamillo di Alexander Vinogradov: timbro robusto e un po’ grezzo, personaggio smargiasso e pochissimo sensuale. Ci si domanda cosa Carmen potesse trovare nel torero di così intrigante. Tutti in parte i personaggi secondari, a cominciare dalle ottime Ruth Iniesta (Frasquita) e Arianna Alexeeva (Mercédès), Davide Fasini (Dancairo), Enrico Casari (Remendado), Luca Dall’Amico (Zuniga) e Biagio Pizzuti (Moralès). Bene il coro e straordinarie per partecipazione ed intonazione le voci bianche del coro A.LI.VE. diretto da Facincani. Da dimenticare nella loro banalità le coreografie di Leda Lojodice.
Stefano Pagliantini
(Foto Ennevi)