Nato nel 1959, “Premio Henze” 2007, Stefan Heucke è uno dei più attivi e interessanti compositori tedeschi, eseguito spesso in Germania e noto anche all’estero. Solo l’Italia lo conosce ancora poco, con suo rammarico, poiché ama la nostra musica e il nostro Paese, per lui quasi una seconda patria, in cui ogni anno rifugiarsi per comporre indisturbato nella pace di Cervo. Lo abbiamo incontrato a Bochum, dove risiede dal 1996, in occasione della prima assoluta della cantata Baruch ata Adonaj cha ha inaugurato l’Anneliese Brost Musikforum Ruhr (il concerto è stato recensito nella rubrica “Dalla platea” del numero di dicembre/gennaio).
Maestro Heucke, ci può parlare di questa composizione?
È stato Steven Sloane, il direttore musicale dei Bochumer Symphoniker, a chiedermi il brano, dandomi indicazioni precise. Desiderava che si sviluppasse intorno a un testo in ebraico molto conciso e che prevedesse un organico ampio e articolato, con solisti, cori e grande orchestra, da utilizzare in senso spaziale, per dare risalto all’acustica del Musikforum. Ho così lavorato intorno ad un versetto dell’antica Mishnà (Baruch ata Adonaj significa «Benedetto sei tu, Signore») risolvendo il problema della forma con un’impostazione di stampo classico, quella del tema con variazioni. Il tema è esposto subito solo vocalmente, prima dal baritono e poi dalle tre voci bianche che gli rispondono in modo antifonale. Poi le variazioni iniziano con un gruppo di fiati e un quartetto d’archi. Poco alla volta si aggiungono altri strumentisti e il coro, con un effetto di accumulo sonoro ed emozionale fino all’Amen finale, una fuga che pervade la sala, consacrandola alla musica.
L’esecuzione è stata accompagnata da una specie di regia: la musica inizia nell’oscurità, il palco è vuoto, salvo il direttore e alcuni figuranti. È previsto in partitura?
Non propriamente. In realtà non l’ho concepita in senso teatrale. Nella fattispecie, si è trattato di una soluzione scelta per sottolineare l’evento inaugurale. Il mio intento era quello di rimanere legato allo spirito del testo, che è di benedizione e ringraziamento, sforzandomi di non realizzare un brano di pura circostanza e puntando invece a qualcosa di capace di avere valore in sé, anche se adatto all’occasione.
Altri suoi lavori si sviluppano intorno a testi sacri. È corretto nel suo caso, parlare di ispirazione religiosa?
Sono credente, protestante. Lo sono in modo non dogmatico, con una certa libertà. Credo però che una dimensione trascendentale nella musica sia importante. Del resto può esservi spiritualità molto forte anche nelle composizioni di autori non credenti. Penso a Shostakovich, che è uno dei miei riferimenti.
Come definirebbe il suo stile?
Sicuramente, sono un compositore molto “tedesco”! Scrivo fughe, ricercari, passacaglie… Prediligo la variazione, l’elaborazione motivica, il contrappunto. La forma per me è essenziale, è la base dell’ispirazione. Non è rigidità, è fonte di espressione. In linea generale mi interessa dare continuità alla linea dei moderni musicisti tedeschi che non avevano rotto i ponti con la tradizione classica, come Hindemith. Poi ci fu Darmstadt, che del passato non ne voleva sapere, in nome del serialismo. Quando mi si chiede un parere su Darmstadt, rispondo che si è trattato di un’esperienza importantissima, tanto da farsi sentire fortemente ancora fino agli anni ’90 del secolo scorso, almeno in Germania. In altri Paesi il condizionamento fu minore, con personalità quali Britten, Shostakovich, o, in Italia, Berio, che riuscì a sviluppare un linguaggio veramente personale. Per quanto riguarda la musica tedesca, ho sempre sentito affinità con Hartmann e Henze.
Va letto in quest’ottica il fatto che nelle sue composizioni non di rado lei agisca direttamente su brani del passato, per esempio di Schubert, Liszt, Wagner, Mahler?
Schubert per primo, che amo moltissimo. Torno a quanto già detto: dopo la Seconda Guerra la tradizione doveva essere cancellata. Per me è esattamente il contrario. Mille anni di musica scritta, da Guido d’Arezzo ad oggi, non sono un peso, ma una ricchezza immensa. La mia scrittura non è però citazionista, allusiva, di ricalco. I materiali storici sono rivissuti, sottoposti a procedimenti di variazione, di trasformazione. La logica è quella di un dialogo, di un confronto che attesta la vitalità e l’attualità di quel passato.
Qual è il suo rapporto con il teatro in musica? Nel suo catalogo, che conta circa 80 numeri, ci sono tre titoli, dal carattere molto particolare…
È vero, si tratta di lavori singolari. Die Ordnung der Erde è un oratorio danzato sull’epopea biblica di Gilgamesh. Das Frauenorchester von Auschwitz, del 2006, è un grande Musikdrama con cantanti e due orchestre (una sul palco e una in buca) e racconta la tragica vicenda dell’orchestra femminile che suonava nel lager, guidata da Alma Rosé. La più recente, Iokaste del 2014, prevede una cantante, un’attrice e una piccola orchestra. Avrei desiderato realizzarne una versione italiana per Monica Bacelli, ma non è stato possibile. Un tempo, lavorare su un testo mi aiutava a trovare la struttura. Oggi sento di essere soprattutto un musicista puro e in quest’ambito ho spaziato senza confini, dalle grandi composizioni sinfoniche alla musica cameristica. In questo momento mi sto dedicando a un concerto per 4 tube e archi.
Quali i progetti futuri, dopo Baruch ata Adonaj?
In giugno, a Magonza, sarà eseguita per la prima volta la Deutsche Messe, una vera e propria “Missa solemnis” con tutte le sue parti ma in lingua tedesca, nella traduzione di Norbert Lammert, che è il Presidente del Bundestag ma anche un fine letterato. Nella struttura e nello stile l’ho concepita come una summa della storia della messa nella musica, da Dufay a oggi, con melodie gregoriane come base. Lammert è cattolico, io protestante, il brano ha una forte impronta ecumenica, in linea con lo spirito del 500° anniversario della Riforma per il quale la Deutsches Sinfonieorchester Berlin l’ha commissionato.
Giorgio Rampone