PROKOFIEV Aleksandr Nevskij, cantata op. 78 CIAIKOVSKI Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 contralto Ekaterina Semenchuk Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti (con scene dal film Aleksandr Nevskij di Sergej Ėjzenštejn)
Roma, Teatro Costanzi, 14 maggio 2024
Serata di grandi emozioni musicali al Teatro dell’Opera di Roma per l’atteso concerto che Michele Mariotti ha diretto con quei complessi sinfonici e corali che sono suoi non solo “per contratto”, ma per una ormai ben percepibile affinità elettiva. Ne ha dato subito splendida contezza quell’Aleksandr Nevskij di Sergej Prokofiev che una volta era di moda inserire nei programmi delle stagioni concertistiche e che più di recente appare più di rado. Si tratta in realtà d’uno dei capolavori di Prokofiev, la cui geniale autonomia l’autore stesso volle affermare ristrutturando le musiche per il film di Ėjzenštejn in una magnifica cantata profana. Che in verità non aveva ora alcun bisogno della retrostante proiezione d’alcuni spezzoni (mal montati, ripetitivi e penalizzati dalle luci necessarie all’orchestra) di un reperto del regime stalinista, a confronto del quale i silent movies di Stanlio e Ollio sembrano cinema del futuro. Anche perché la direzione di Mariotti era doviziosamente prodiga di una fantasia “rappresentativa” a tratti invero magica. Trasfondere i momenti e i sentimenti della storia d’un popolo in pagine di musica che ne raccontino l’anima, la sofferenza, gli aneliti e le battaglie, le sconfitte e le vittorie, è virtù serbata a pochi grandi. Ed in questo – ben più che al Rimskij-Korsakov del Gallo d’oro o allo Stravinskij dell’Uccello di fuoco, come da alcuni si ritiene – Prokofiev ha idealmente guardato al Boris Godunov e alla Chovanščina di Musorgskij. Certo la fosca atmosfera del Prologo “La Russia sotto il giogo mongolo”, con quel movimento orchestrale di lancinante acume, quasi un gemito d’uomini e terra, ripetuto tre volte, al quale presto si faranno attorno echi lontani di canti popolari, ebbene è intuizione formidabile. E Mariotti le ha conferito una cupezza traversata da bagliori sinistri invero di superba fattura. I due episodi seguenti oppongono la marziale baldanza della canzone dei soldati vittoriosi alla Neva, al salmeggiare ieratico e implacabile dei Crociati: e in entrambi ma soprattutto, su quel crescendo serrato imposto dal direttore, il coro maschile (col suo maestro Ciro Visco) ha ottenuto esiti formidabili. L’allegro risoluto “Sorgi popolo russo” è forse la più “sovietica” della cantata, con quell’allure da parata e quelle immancabili scale dello xilofono; ma il fatale Adagio della “Battaglia sul ghiaccio” è assolutamente, originalmente spettacolare, con le sue armonie dissonanti, con quei brividi gelidi, con lo scontro fra l’ossessiva metrica latina dei Cavalieri e le dinamiche libere ed esaltanti dell’orchestra, in una progressione sonora che arriva al cataclisma, giusto allo spezzarsi del ghiaccio sotto il peso delle armature e dei cavalli dei Teutonici. Il controllo e al tempo stesso la tensione ottenuti da Mariotti hanno tenuto il pubblico inchiodato alle poltrone. Così come l’ingresso di Ekaterina Semenchuk, il cui canto stupendo ne “Il campo della morte” (quasi da far perdonare il suo vestito) reca una quiete rorida di lacrime sui caduti d’ogni parte. Il finale, “L’entrata di Aleksandr Nevskij in Pskov” è grandioso e chiede al direttore polso fermissimo, ma non sfugge da qualche pur clamorosa convenzionalità nei suoi richiami un po’ a Glinka, un po’ a Borodin. Applausi da terremoto.
La Quarta sinfonia di Ciaikovski (che forse meglio avrebbe figurato all’inizio della serata) è tecnicamente impervia e mentalmente intricata, a far un tragico terzetto con la Quinta e la Sesta. E il programma che lo stesso autore aveva steso in una lettera alla von Meck soccorre l’interprete in modo assai relativo. La Quarta sinfonia in verità è sul crinale difficile tra quelle che la precedono e le due che la seguono: ovvero tra una memoria ben viva del classicismo, sia pur mitigato dagli innesti popolari e il cupo decadentismo finale, che vedrà superata ogni possibilità di quelle memorie. Contemperare leggerezza, eleganza, stilizzazione, mirabile confezione del dettato musicale, con l’urgenza d’un destino che non bussa, ma tenta di sfondare la porta, è impresa riuscita a pochissimi: Markevitch, Schippers, Karajan, ovviamente Mravinski. L’ancor giovane Mariotti ha senz’altro garantito una resa formale quasi sempre di rango; e appassionata, vibrante, sonora forse oltre misura. Ci son parsi però non specialmente lodevoli quei ludi mozartiani dei fiati, a solo o in dialogo; e forse manchevoli certi languori, certe stanche rassegnazioni che hanno comunque da dirsi quando si tratti di Piotr Ilich. E se il sesto grado dello Scherzo. Pizzicato ostinato. Allegro è stato superato con esito egregio, gli è anche mancata un po’ di quell’ebrietà che lo stesso compositore affermava esservi imprescindibile. Mariotti potrà certo tornar sopra a questo e ad altri suoi Ciaikovski: ben tenendo presente tuttavia che al Costanzi, quando l’orchestra non è in buca, ma sul palcoscenico, la calibratura fonica rischia talora d’andare in zona rossa, di saturare l’ambiente. Anche la Quarta, comunque, applauditissima.
Maurizio Modugno