Lipsia non è la capitale della Sassonia: il Re risiedeva a Dresda, resa bellissima da Palazzi della Corte e da edifici pubblici tanto da venir considerata la “Firenze sull’Elba”. I bombardamenti del 1944-45 l’hanno in gran parte distrutta, ma i tedeschi la hanno ricostruita al meglio. Lipsia, tuttavia, era la capitale finanziaria ed economica già nel Quattrocento, a ragione principalmente del vasto mercato che, dal Medioevo, è il fulcro della città. Ora non è più un importante centro finanziario di gran rilievo, ma viene definita “città dello sport e della cultura”. Ha circa mezzo milione di abitanti; è in pianura; sfrecciano biciclette sia nel centro storico che nei viali (costruiti dove un tempo c’erano le mura della città) e nei parchi. La città è stata la sede della maggiore diffusione della stampa (ai tempi di Lutero) ed è stata la patria di Bach, Wagner e Mendelssohn nonché, per diversi anni, la residenza di Robert Schumann e Clara Wieck. Ora sfoggia due teatri ed una sala di concerto (il celebre Gewandhaus, di origini medievali, nato come cooperativa di artigiani e commercianti, appassionati di musica). Tra i direttori musicali che si sono avvicendati alla guida della formazione Riccardo Chailly, Kurt Masur, Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler per non citare che i più noti sotto il profilo internazionale.
Per quanto riguarda il teatro in musica, un teatro è dedicato all’operetta (anche contemporanea) ed uno all’opera (un grande e funzionale edificio inaugurato nel 1960 – quello ottocentesco è andato distrutto durante la guerra). Grazie al sistema di “repertorio”, mette in scena quaranta opere e dieci spettacoli di balletto l’anno; ogni anno sfoggia cinque nuovi allestimenti che vengono replicati per almeno un decennio.
A metà giugno, a Lipsia si svolgevano due festival: uno dedicato a Bach (nel cinquecentesimo anno della Riforma) ed uno a Richard Strauss. Pur entrando nella chiesa bachiana per eccellenza, ed ascoltando una servizio domenicale, mi sono dedicato soprattutto a Strauss: tre opere (di cui un nuovo allestimento) dirette da Ulf Schirmer dal venerdì alla domenica: un vero e proprio tour de force.
Le tre opere sono Arabella, Salome, e La donna senz’ombra. Arabella manca dalle nostre scene da oltre un quarto di secolo, mentre nell’ultimo trentennio la Donna senz’ombra si è vista in due produzioni differenti alla Scala ed in due a Firenze, nonché in una a Venezia.
Cominciamo con Arabella. Nel febbraio 1992, recensendo l’ultima messa in scena in Italia alla Scala (alcune rappresentazioni nell’ambito di una tournée dell’Opera di Monaco di Baviera), l’allora critico musicale del “Corriere della Sera” parlò di “incanto dell’amore”. Una definizione azzeccata, mentre ancora oggi c’è chi parla, a proposito di questa magnifica commedia lirica — “il bazar sublime di ogni possibile ed impossibile impegno vocale”, come scrisse Fedele D’Amico — di Sklerosenkavalier, ove non di Prostatenkavalier.
La vicenda è a mezza via tra nostalgia e commedia dei sentimenti. La storia è quella di una famiglia nobile sull’orlo della bancarotta che, nella Vienna degli anni immediatamente successivi alla guerra austro-prussiana (periodo, quindi, di incertezza politica e di dissesti finanziari non troppo distanti dai nostri anni, non solo dell’epoca quando venne concepita), gioca le ultime carte puntando su un buon matrimonio della figlia Arabella per salvare una situazione assai compromessa.
Per questa ragione la sorella più giovane, in attesa che un ricco cavaliere si presenti per Arabella, è costretta a vivere travestita da ragazzo. Nasce in questo modo l’equivoco sul quale si fonda lo svolgimento degli accadimenti scenici; uno svolgimento da teatro leggero, trattato, con grande eleganza, dalla penna di Hofmannsthal, si conclude con un lieto fine. Ma si risolve tutto in dolcezza. E con una musica del tutto nuova ed innovativa per un settantenne, senza dubbio in pieno vigore: una scrittura, come detto da Mario Bortolotto nel suo saggio su Strauss, fatta di “schegge e tessere sonore” che “scorrono, riapparendo in momenti del tutto imprevedibili” in cui anche i ritmi di danza (valzer lento, polacca, valzer brillantissimo) hanno una funzione importante.
L’edizione vista ed ascoltata a Lipsia il 16 giugno ha debuttato nel giugno 2016 e si prevede verrà replicata per vari anni. La regia è di Jan Schmidt-Garre, le scene di Heike Scheele ed i costumi di Thomas Kaiser. Nell’immenso palcoscenico, sei elementi (ciascuno con praticabili) mostrano varie parti dell’albergo che si ricompongono in un’unica unità nella scena finale. L’epoca non è il 1868: si potrebbe essere negli Anni Ottanta del Novecento dati i costumi e le caratteristiche dell’albergo – come le luci al neon ed il mobilio dell’albergo, che potrebbe essere l’Hotel Berlin sulla Unter den Linden. Potrebbe essere anche un luogo imprecisato dell’Europa del malessere di questi anni. La via d’uscita è “l’incanto dell’amore”; in questa, come in altre opere, per Strauss il solo incanto possibile è quello dell’amore coniugale.
Sul podio, Ulf Schirmer sfoggia la sua perizia nel dipanare gli intrecci della difficile scrittura orchestrale. Impossibile citare tutti i 17 solisti. Arabella è l’americana Betsy Horne, da anni in Germania dove canta Der Rosenkavalier nei maggiori teatri di Berlino; voce calda, passionale ma anche dolcissima. Mandryka è il baritono lirico Thomas Mayer. Grandissimo il loro duetto finale. Tra gli altri, spicca Olena Tokar, applauditissima nel ruolo en travesti della sorella più giovane di Arabella, Zdenka, vestita da ragazzo adolescente, ma in piena esplosione ormonale; ne sa qualcosa Matteo, Markus Francke, unico tenore di rilievo della serata. Il Conte Waldner, che vuole risolvere i suoi problemi finanziari dando Arabella in sposa, è un grande nome del teatro musicale tedesco, Jan-Hendrik Rootering ma la sera del 16 giugno era a corto di volume.
Salome è il titolo più rappresentato in Italia (in maggio si è vista una buona co-produzione a Catania ed a Palermo) ed è un nuovo allestimento. Questa Salome è l’ultima realizzazione di Rosalie, soprannome di una famosa autrice di scene e costumi, deceduta una settimana prima del debutto (che è stato a lei dedicato). La produzione, a cui ho assistito il 17 giugno, ha un forte carattere innovativo e si differenzia marcatamente da quelle realizzate di norma in Italia.
Questa nuova produzione si svolge in una Gerusalemme dei giorni d’oggi, dove nessuno, proprio nessuno, è senza peccato. Salome (Elisabet Strid) ammalia tutti; arriva a masturbare lo stesso Giovanni Battista (Tuomas Pursio), il quale mostra di gradire ma di non volere andare oltre. Ciò causa il suicidio di Narraboth (Sergei Pisarev), il capitano delle guardie sinceramente innamorato della sedicenne. Erode (Michael Weinius) è un tetrarca palestinese in ottimi rapporti con gli ebrei (ne ospita quattro ortodossi) che sembra confinare con il muro del pianto; è viziato, compromesso con il potere e vizioso (si droga) ma ha orrore della necrofilia (Salome che bacia la testa tagliata di Giovanni Battista); Erodiade (Karin Lovelius) una vissuta baldracca, ormai giunta agli ultimi fuochi.
Elisabet Strid sfoggia la sua voce wagneriana, apprezzata anche in Italia e negli Stati Uniti; con i suoi acuti riempie il vastissimo teatro, con i suoi pianissimi lo incanta. Giovanissima, esplode di sex appeal. Il suo deuteragonista è Erode, tenore dalla scrittura acuta, a cui si contrappongono quella più centralizzante di Narraboth, e quella baritonale di Giovanni Battista (anche lui con acuti tali da riempire la sala), tutti grandi attori. Teatro strapieno, pubblico delle grandi occasioni, attenzione e silenzio assoluto durante la rappresentazione, seguiti da dieci minuti di vere e proprie ovazioni.
La donna senz’ombra viene rappresentata molto raramente in Italia anche perchè richiede cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Il filo dell’apologo ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo ed una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro: senza figli, tanto gli uomini tanto le donne restano in un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia (ed avere figli è la gioia suprema) si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di sofferenze. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti. Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna.
Hofmannsthal e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dal primo conflitto mondiale. Il messaggio è più che mai attuale oggi in un Continente che sta invecchiando sempre di più ed in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire. Un Continente dove la denatalità è una piaga di cui ci si ricorda solamente quando ne vengono diramate le statistiche.
Ulf Schirmer e la Gewanhausorchester hanno fornito un’esecuzione mirabile, pari a quella, in studio, di Karl Böhm, quando la stereofonia era ad i suoi inizi. Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena.
Lo spettacolo del 18 giugno (a cui ho assistito e che concludeva il Festival Strauss) è stato turbato da una malattia della protagonista (la moglie del tintore), Jennifer Wilson, che è anche il ruolo vocalmente più arduo. Lo si è risolto sostituendola con Elena Pankatrova, che, arrivata pochi minuti dall’inizio, ha cantato sul lato del palcoscenico mentre un’attrice recitava in scena. La Pankatrova, che colpì il pubblico italiano nel 2010 al Maggio Musicale Fiorentino, conosce la parte a puntino ed è forse uno dei rari soprani che oggi può affrontare il ruolo.
L’intreccio delle tre voci femminili (la donna, la nutrice e l’imperatrice) ha dato esiti mirabili anche grazia all’ottima acustica del teatro. Tra le voci maschili spicca il baritono Franz Grundheber (Barak), il quale è anche un grandissimo attore che, in modo commovente, giustappone la propria semplice ma genuina sofferenza a quella dell’Imperatore (il tenore Burkhard Fritz): ambedue, ad un certo momento della vicenda, credono di essere traditi dalle proprie mogli.
La regia (Balàsz Kovalik) segue fedelmente il libretto e gli effetti speciali richiesti (discesa dal mondo dell’Imperatore a quello dei poveri, terremoti, incendi, animali parlanti – o meglio cantanti -, fontane da cui sgorga acqua, incendi, ponte che collega il mondo celeste e quello umano e sotto cui cammina l’intera umanità). Le scene (di Heike Scheele) ed i costumi (Sebastian Ellrich) sono quasi atemporali, per significare l’universalità del messaggio. Ad esempio, il salone con statue neoclassiche e la sala da pranzo del Palazzo dell’Imperatore rievocano la Germania guglielmina dell’epoca di Bismarck, mentre il quartiere dove vivono Barak e la moglie un’area di case popolari di quella che trent’anni fa doveva essere la Germania dell’Est. Un palcoscenico enorme ed attrezzato con ascensori (le scene, costruite, salgono e scendono) rende tutto questo possibile.
Giuseppe Pennisi