MOZART Le nozze di Figaro L. Micheletti, R. Feola, J. Kleiter, S. Keenlyside, S. Stoyanova, A.D. Capitelli, A. Concetti, M. Falcier, P. Nevi, C. Sala, C. Cigni; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Daniel Harding regia Giorgio Strehler scene Ezio Frigerio costumi Franca Squarciapino
Milano, Teatro alla Scala, 29 giugno 2021
Già rivedere la Scala nel suo aspetto naturale, senza quella pedana che per mesi l’ha deturpata (per forza di cose, certo, ma forse eccessivamente a lungo) dava gioia ai quasi 800 spettatori ammessi al Piermarini: in più, si riallestiva per l’ennesima volta uno spettacolo mitico, le Nozze di Figaro con la regia di Strehler, nel centenario della nascita del grande artista triestino. E qui si pone subito un dilemma: esiste un allestimento d’opera (limitiamoci a questo genere) che possa superare la prova del tempo, che 40 anni dopo la sua prima comparsa riesca ancora a parlare a chi lo vede? Secondo me no: e ovviamente queste Nozze non fanno eccezione. Perché la bellezza commovente della dimensione visiva, con quelle morbide luci di taglio che inondano le scene di Ezio Frigerio, un capolavoro specie nei due atti centrali (e nessun appassionato di teatro può permettersi di non conoscere l’impianto del terz’atto, con quella infinita fuga prospettica) è certamente qualcosa di eterno, ma il messaggio che sottende molto meno: un Settecento mozartiano che, nei gesti rivoluzionari di Figaro (pur smussati in questa ripresa) pulsa delle stesse inquietudini degli anni Settanta italiani, coperti da un’ideologia oggi molto invecchiata. Alla fine, forse in maniera non voluta, le pose e i vezzi strehleriani, allora rivoluzionari e oggi manieristici, hanno esaltato un legame caro agli austriaci, quello di una filiazione diretta tra le Nozze e il Cavaliere della rosa: una Rosina-Marescialla e un Cherubino-Octavian, insomma (e magari pure una Susanna-Sophie: per fortuna il buon senso teatrale e l’italianità di Rosa Feola sventavano il rischio), le cui passioni e sentimenti si tengono molto lontane dal mondo dell’opera buffa italiana settecentesca, per divenire un distillato malinconico di nostalgie e rimpianti. Quando questa Contessa canta (bene, ma certo non in maniera memorabile) “Dove sono i bei momenti”, il passo verso le clessidre della Marescialla è davvero minimo. In questo, la direzione di Daniel Harding era ideale: lentissima fino alla catarsi, sussurrata, mormorata, talora funebre. Il problema è che a tale stacco di tempi degno di un Klemperer avrebbe dovuto corrispondere una chiarezza di eloquio, una precisione nella concertazione e una perfezione esecutiva assolute: che io proprio non ho sentito. Anzi, innumerevoli erano i problemi di coordinazione con i cantanti che faticavano a tenere tempi così lenti, per non parlare di quanto, all’interno dello stesso numero musicale, dopo poche battute si perdessero le intenzioni iniziali. Né le scelte musicologiche convincevano: se l’integralità, a livello testuale, è sempre lodevole, diventa incomprensibile inserire arie “di carattere” e molto convenzionali come quelle di Marcellina e Basilio, se le si strappa al loro humus d’origine, l’opera buffa italiana (e anche l’aria di Bartolo aveva gli stessi problemi: il sillabato meno sillabato mai sentito…). E poi, non si capisce che senso abbiano le due trombe naturali piazzate in un’orchestra così poco “baroccheggiante” e settecentesca nelle intenzioni. Insomma, al di là di qualche episodio ben riuscito (il finale terzo, con quel fandango che si avvitava sempre più minaccioso e pungente), Harding ha deluso in maniera completa: peccato, poiché la statura del musicista non è in discussione.
E peccato doppio, perché il cast schierato era davvero notevole: se Simon Keenlyside se la cava col mestiere, ma appare vocalmente in disarmo, e Julia Kleiter è una Contessa di buone maniere canore, sebbene un po’ scipita, ideale appariva la coppia Susanna-Figaro. Lei, Rosa Feola, riunisce squisita eleganza di canto a quella sensualità concreta, a quel buon senso pratico che caratterizzano il personaggio mentre lui, Luca Micheletti, è un attore fenomenale che canta con totale naturalezza, esaltando una voce brunita e bella di timbro, a suo agio nell’ampia tessitura del Figaro mozartiano. E se Svetlina Stoyanova è un Cherubino dall’affascinante, fragile grazia (l’unica artista, tra l’altro, a variare il da capo del suo secondo numero: una maggiore uniformità sarebbe stata gradita), tutti i comprimari uniscono bella dizione, eleganza e intelligenza: senza fare torto a nessuno, voglio però lodare la giovanissima Caterina Sala, una Barbarina in cui si intravede già una futura Susanna. Applausi tiepidi: la nostalgia, forse, non funziona più. E che questo Strehler invecchiato fosse comunque meglio dell’indecente spettacolo di Frederic Wake-Walker, visto alla Scala nel 2016, consola ben poco.
Nicola Cattò