MONTALTI Ehi Gio’ G. Bonfatti, L. Bergamelli, S. Grigoli PUCCINI Le Villi L. Caimi, E. Fabbian, M.T. Leva; Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Marco Angius Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA; regia e scene Francesco Saponaro costumi Chiara Aversano
Firenze, Teatro dell’Opera, 18 ottobre 2018
Firenze mette le carte in chiaro e presenta la sua Stagione lirica 2018/2019 non nel segno d’un numero cardinale a ricordarne l’età, ma a emblema della trasformazione del Maggio in un Teatro dell’oggi e del domani, in prospettiva di uno sviluppo quotidiano, giorno dopo giorno senza più soluzione di continuità. Ecco quindi il programma del management fiorentino, Chiarot-Conte, spiegarsi in 34 titoli di lirica di cui 15 nuovi allestimenti, balletti e sinfonica per 179 serate complessive.
A dare il via stasera, 18 ottobre 2018, un dittico dall’inusuale composizione: Ehi Gio’, commissione fiorentina per una seconda versione del lavoro di Vittorio Montalti (quest’estate in prima assoluta allo Sperimentale di Spoleto) e Le Villi, opera d’esordio (1884) di Giacomo Puccini.
Stridente la differenza di orchestrazione impiegata per le due composizioni: l’Ensemble sul palco per la partitura di Montalti era di otto elementi (più l’elettronica ben curata da Tempo Reale), mentre in Le Villi era schierata l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino con una settantina di elementi.
Le due opere hanno trovato un fil rouge di argomentabile consistenza, proponendo come soggetto centrale il passaggio dalla morte alla vita.
Ne ragiona, in questo Ehi Gio’, Gioachino Rossini, che prende a parlare con se stesso della sua scomposta vita compositiva, della sua depressione, delle sparizioni, per arrivare al grande tema della morte e del suo dopo. Se è geniale il testo di Giuliano Compagno, che finalmente sfrutta il patrimonio dell’OuLiPo (l’officina di letteratura potenziale, cui lavorarono Perec, Queneau, Balestrini, Eco…) producendo forse il miglior libretto dei Duemila, la componente visiva diverte un po’ grossolanamente. Da una sorta di visione post-fordista del Novecento la struttura rappresenta pareti di uffici al primo piano e un piazzale tipo autofficina sul calpestabile. La realtà di Francesco Saponaro, regista e sceneggiatore del dittico, è invece un esterno e interno di uno studio di produzione musicale su, con registratori, microfoni e altri attrezzi giù in palcoscenico.
La regia, la poca coreografia e i movimenti in scena affidati a un attore, un performer, tre cantanti, prima di ensemble ed elettronica che completano il cast, si sono dimostrati coerenti, in grado di esaltare le qualità recitative di Tony Laudadio (Rossini), narratore, e le ottime performances del soprano Ljuba Bergamelli, a suo perfetto agio in questo ruolo, del tenore Gregory Bonfatti, ineccepibile dal punto di vista vocale e di riconoscere il corretto contributo del baritono Salvatore Grigoli, tutti favoriti dai comodi e bei vestiti di Chiara Aversano e seguiti dalle luci di Pasquale Mari.
La parte musicale, affidata alla precisa direzione di Marco Angius, lascia tutti un po’ squilibrati. L’aridità della massa sonora prodotta da strumenti e voci non convincono il pubblico del Maggio che tributa al lavoro più fischi che applausi.
Seconda parte con Le Villi, con cui Saponaro cerca di quadrare il cerchio. Il termine che egli esalta con impegno è quello dell’opera-ballo con cui, se Puccini ammiccava al gusto del tempo, Saponaro rafforza il legame col tema vita-morte, ch’egli ripresenta subito attraverso il buon lavoro coreografico impostato da Susanna Castro sui giovani e preparati elementi della Compagnia Nuovo Balletto di Toscana (che ha preso il posto dell’assassinato Coro del Maggio). La direzione di Angius si dimostra ancora acerba, lontana dalle intenzioni pucciniane, relegando la prestazione dei complessi del Maggio a una buona prova di routine, mentre i solisti impegnati: Leonardo Caimi, Anna Teresa Leva, Elia Fabbian e Tony Laudadio, se la cavano molto bene. Puccini, aspetta!
Davide Toschi
The Beggar’s Opera ballad opera di John Gay e Johann Christoph Pepusch (nuova versione di Ian Burton e Robert Carsen) regia Robert Carsen ideazione musicale William Christie scene James Brandily costumi Petra Reinhardt. Con i musicisti dell’ensemble Les Arts Florissants, direttore e clavicembalo Florian Carré
Pisa, Teatro Verdi, 20 ottobre 2018
Il Teatro Verdi di Pisa ha inaugurato la sua stagione 2018/2019 recuperando un titolo che, se nell’ambiente dell’opera è sempre guardato con circoscrizione, in quest’occasione ha confermato essere esattamente ciò che se ne pensa. The Beggar’s Opera (in traduzione moderna L’opera del mendicante) è l’opera che non c’è. Melodramma satirico del commediografo inglese John Guy scritto nel 1728, il testo commenta la vita quotidiana di una banda di mendicanti nel contesto della degradazione morale della società inglese di quegli anni. Il pungente ricorso alla satira politica, il linguaggio crudo preso pari, pari della cospicua popolazione dei bassi londinesi, ne fecero un inaspettato successo. E la musica, si dirà? Alla musica pensò, probabilmente (!), Mr. John Christopher Pepusch, mediocre musicista tedesco che arrangiò un composto di ballate inglesi, canti popolari irlandesi e melodie tratte dal repertorio di autori come Geminiani, Händel, Bononcini, Barrett. Risultato tanto interessante da destare nel tempo l’interesse di compositori come Kurt Weill, che nel ‘28 assieme a Bertolt Brecht ci compose l’Opera da tre soldi e di Benjamin Britten, che nel 1948 ne rielaborò una bellissima edizione mantenendo il titolo originale di The Beggar’s Opera. Indimenticabile poi una edizione cinematografica del 1953, intitolata Il masnadiero, con Laurence Olivier nel ruolo del protagonista. Oggi, la produzione passata da Pisa e che raggiungerà ancora Novara è allestita e firmata da Robert Carsen per il Théâtre des Bouffes du Nord, Parigi.
L’operazione è chiara, sfrontata e irriverente. Carsen costruisce una scena modulare, adattabile cioè a qualunque grandezza di palcoscenico. Scatoloni che formano un muro da fondale. Poi qualche elemento d’arredo: un banco da bar, delle poltrone, tutto ancora rigorosamente cartone. Il muro si chiude e si riapre. Offre un rifugio, un deposito di bevande. Sulla sinistra invece, i tavolini di cartone sono per i banchi coi computer dei giovanissimi musicisti de Les Arts Florissants, coi loro strumenti settecenteschi e i loro recentissimi tablet.
Caos, esasperazione, grida. Nulla è misurato. La vita al di là del Tamigi è chiassosa, irresponsabile, netta e istantanea come le storie d’amore che qui, come altrove, sbocciano e danno sentimento a un intreccio sapido, umido come i corpi sudati che si muovono frenetici. La giovanissima compagnia degli interpreti è strabordante, confonde il canto col ballo, l’acrobazia con la recitazione, il corpo con le sue propaggini: ora bottiglie, ora smartphone, ora armi.
La narrazione scorre in un flusso inarrestabile. È teatro qui, ma teatro ibrido e curioso, giocato sull’autenticità della performance storica da cui nasce, e da una partitura originale andata persa che si è tentato di ricostruire su queste poche spoglie presentate qui. Ecco l’elemento più debole: la musica, che qui c’è, ma anche no.
Tutto è probabilmente sopra le righe. Carsen ha cercato un risultato straniante, con il pedigree de Les Arts Florissants e i loro strumenti d’epoca da una parte e i suoni di scena estremi delle armi, le parolacce e gli improperi gridati dall’altra. Lo spettacolo è da vedere. Se sia opera o prosa accompagnata, anche questo resta da vedere. Il divertimento, quello sì, è assicurato.
Davide Toschi