VERDI Don Carlos J. Kaufmann, S. Yoncheva, I. Abdrazakov, L. Tézier, E. Garanča, D. Beloselskiy, K. Baczyk, E.M. Hubeaux, J. Dran, S. Tiruma; Orchestre et Choeurs de l’Opéra National de Paris direttore Philippe Jordan regia Krzysztof Warlikowski scene e costumi Malgorzata Szczęśniak luci Felice Ross
Parigi, Opéra Bastille, 25 ottobre 2017
Prima di entrare nel cuore della recensione di questo atteso spettacolo, non sarà inutile ricapitolare, per sommi capi, il problema relativo alle varie versioni di Don Carlos/Don Carlo:
1) completato nel 1866, Don Carlos vide la luce l’11 marzo 1867. Nella versione del 1866 non figurava ancora il balletto La Peregrina, composto da Verdi nelle more del debutto;
2) rispetto alla partitura originaria, alcuni tagli furono apportati già in occasione della prova generale; ciò al fine di ridurre la durata dello spettacolo e consentire così ai banlieusards parigini di poter rientrare a casa utilizzando il trasporto pubblico prima dell’interruzione notturna. Ai tagli praticati per la prova generale se ne aggiunsero altri per la prima rappresentazione — tra cui il coro iniziale dei boscaioli – ed altri ancora per la replica;
3) nel 1872 l’opera venne tradotta in italiano e allestita a Napoli. Per l’occasione fu adottata la versione della prima assoluta, con due ulteriori cambiamenti, il più significativo dei quali al duetto Filippo-Posa, senza dubbio il brano più tormentato dell’opera (nel senso che Verdi lo modificò più volte, anche in seguito);
4) per le rappresentazioni scaligere del 1884 Verdi tagliò l’intero primo atto (salvando solo l’aria di Carlo, trasferita con testo e senso modificato, al secondo) e il balletto. Alcune scene furono rimaneggiate (di nuovo il duetto Filippo-Posa e la scena e quartetto che segue il confronto tra il re e il Grande Inquisitore);
5) infine, per la versione di Modena del 1886, Verdi ripristinò il primo atto (quello della prima assoluta) conservando, per il resto, le modifiche adottate per la Scala.
Con il passare del tempo la versione in lingua italiana si è affermata di gran lunga come la più diffusa (in particolare quella in quattro atti del 1884) e quella in francese è stata pressoché abbandonata, salvo sporadici (e non sempre riusciti) tentativi di riesumarla. Al riguardo, si contano quattro testimonianze audio-video significative:
(1) l’edizione Opera Rara del 1973 diretta da John Matheson, ingiustamente negletta, in quanto priva di star di grido, ma impeccabile dal punto di vista musicologico e apprezzabile nella misura in cui ha coinvolto un cast di cantanti prevalentemente francofoni;
(2) l’incisione DG diretta da Abbado, deludente sotto molti aspetti: il cast, le scelte editoriali e perfino la qualità della registrazione. Un’operazione che ancora oggi lascia perplessi per la superficialità generale con cui fu affrontata;
(3) la versione (un po’ pasticciata) sia audio che video dello spettacolo presentato al Théâtre du Châtelet nel 1996, allestito da Luc Bondy, diretto da Antonio Pappano e con un cast di livello, almeno sulla carta (Alagna, Mattila, Van Dam, Hampson, Waltraud Meier, Halfvarson, gli ultimi tre alquanto discutibili, a dire il vero);
(4) infine la produzione viennese del 2004 (anch’essa sia audio che video) che ha il merito di farci ascoltare tutta la musica scritta da Verdi (partitura del 1866 più il balletto), purtroppo in una versione musicalmente inadeguata a causa della direzione soporifera di Bertrand de Billy e di una distribuzione non all’altezza, cui fa però da contraltare la geniale messa in scena di Peter Konwitschny.
La lunga premessa che precede serve a dare la misura dell’importanza della produzione dell’Opéra di Parigi in commento, che ha proposto la versione in francese del 1866, con tutti i tagli riaperti ma senza balletto, giudicato dal direttore d’orchestra Philippe Jordan drammaturgicamente inutile. Si discute se Verdi abbia composto Don Carlos adattandosi alla prosodia e, più in generale, alla peculiare musicalità della lingua francese o se abbia invece in qualche modo forzato il francese all’interno di uno stile melodico che conserva la sua “italianità”. Consapevole di questa potenziale ambivalenza, Jordan ha provato ad offrire una lettura orchestrale che valorizzasse il flavour francesizzante della versione primigenia. Ha quindi alleggerito e assottigliato il suono ed ha smussato le punte più scopertamente drammatiche, conferendo alla musica un flusso meno nitido e contrastato, più omogeneo sul piano dell’intensità ma più sottilmente nuancé nei colori e nel fraseggio (incluse alcune pause lunghe ed eloquenti). Un approccio interpretativo che enfatizza la dimensione più intellettuale e politica del testo francese, decisamente più prosaico e meno passionale rispetto a quello italiano.
L’obiettivo della messa in scena di Krzysztof Warlikowski è quello di mettere a nudo la verità esistenziale dei personaggi, alle prese con i tumulti e la violenza del potere, restituendo la complessità e la contraddittorietà di ciascuno di essi. In quest’ottica, la vicenda viene ricollocata intorno alla metà del novecento, come sembrano indicare i costumi e la boiserie che riveste la scena. Il Carlos che ci viene proposto è un uomo afflitto e instabile: lo vediamo comparire in scena ancor prima che la musica inizi con i polsi insanguinati e fasciati – chiaro indicatore di un tentato suicidio – e con l’atteggiamento di chi è gravemente prostrato dal punto di vita psicologico. L’atto di Fontainebleau è dunque un flashback: la regina è già tale e i ritagli di giornale che Carlos ha conservato suggeriscono che il nostro è in preda ad una sorta di fissazione. Il coro dei boscaioli è raffigurato come una comitiva in visita turistica a palazzo. Entrambe le scelte sono parse alquanto incongruenti: la prima (quella del flashback) potrebbe forse funzionare nella versione in quattro atti, non certo in quella in cinque; la seconda (turisti invece di boscaioli) non dà adeguato conto delle sofferenze del popolo, intento a fronteggiare, oltre al rigido inverno, anche la guerra, e quindi non spiega il sacrificio di Elisabetta, costretta ad anteporre, obtorto collo, la ragion di Stato a quelle del cuore. Come di consueto, Warlikowski si avvale di riferimenti cinematografici, che però, in questa circostanza sono apparsi banali (per non dire inutili). Inoltre, la presunta indagine psicologica dei personaggi funziona solo per alcuni di loro: per Don Carlos, per esempio (per il quale, ad onor del vero, Jonas Kaufmann, applica moduli recitativi simili a quelli già usati per Lohengrin o Florestan); ed anche per l’Eboli di Elina Garanča. A quest’ultimo proposito ci è parsa interessante l’ambientazione della scena della Canzone del Velo in una palestra per schermitrici, in quanto, oltre che a dipingere una corte alle prese con svaghi superficiali e lussuosi, fa emergere in maniera singolare il carattere ambiguo e competitivo della principessa rivale della regina. Fuorviante, per contro, la caratterizzazione del Grande Inquisitore, presentato come una specie di boss volgare e borioso, ciò che snatura il senso della grande scena con Philippe II: quello che dovrebbe essere un dialogo privato tra potenti che decidono della vita e della morte altrui assume connotazioni grottesche fuori luogo. Si aggiunga un autodafé tutt’altro che agghiacciante, ambientato, com’è, in una sorta di emiciclo parlamentare popolato di monaci, suore, deputati fiamminghi etc., e si avrà la conferma di una messa in scena nel complesso deludente. Da un regista di genio come Warlikowski era lecito attendersi molto di più, sia sul piano della concezione generale, che sotto il profilo della regia propriamente detta (cioè la direzione degli attori).
Sul piano vocale, superata l’iniziale prudenza, Jonas Kaufmann risolve l’arduo ruolo dell’Infante con un canto ricco di chiaroscuri e con un registro acuto solido e penetrante. Sonya Yoncheva è un’Elisabeth dai mezzi davvero regali: voce timbrata e omogenea, con una proiezione insolente, che le consente di riempire senza problemi la grande sala della Bastille. Il fraseggio è articolato e la presenza scenica, al netto di qualche movenza un po’ enfatica (Warlikowski, come detto, non “presidiava”…) è indubbiamente magnetica. Ildar Abdrazakov è un Philippe II giovanile e tormentato, che mette in evidenza, più che l’autorità minacciosa del sovrano, la fragilità dell’uomo, alla ricerca di quell’amore e di quella tenerezza che non è in grado, egli stesso, di offrire. In quest’ottica, il basso russo riesce a mettere a profitto i limiti di una voce tutt’altro che voluminosa, con un registro grave di limitata profondità, ma governata da una tecnica impeccabile, in grado di suscitare autentica compassione nel momento del bilancio morale di Elle ne m’aime pas. Il Posa di Ludovic Tézier esibisce invece voce ampia e robusta, caratterizzata da una gestione della respirazione da manuale e da un registro acuto poderoso; peccato che in scena, latitando il regista, si limiti ad un’incarnazione nulla più che convenzionale. Elina Garanča fa udire un canto omogeneo lungo tutta la gamma: agile nelle fioriture della Canzone del Velo, aggressivo e sardonico nella scena con Carlos e Posa, vibrante nell’espressione del rimorso di Ô don fatal; una varietà espressiva che, associata ad una strepitosa presenza scenica, le consentono di incarnare un’Eboli di volta in volta sensuale, manipolatrice, minacciosa. Dmitry Beloselskiy è un Grande Inquisitore che canta e non vocifera; sarebbe un’ottima notizia se la regia non ne offrisse un ritratto che sfiora il ridicolo. Di alto livello anche la distribuzione dei ruoli minori – tra cui merita almeno di essere menzionato il Tebaldo di Eve-Maud Hubeaux – e eccellente l’apporto del coro.
Paolo di Felice
Foto: Agathe Poupeney