VERDI Luisa Miller G. Kunde / G. Gipali, M. Mimika / A. Rosalen, M. Belli / S. Koberidze, G. Sagona, F. Vassallo / L. Kim, M. Papatanasiu / M. Torbidoni, V. Pilipenko, H. Kawakami; Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Daniel Oren regia, scene, costumi e luci Mario Nanni
VERDI Otello G. Kunde / R. Aronica / A. Soghomonyan, F. Vassallo / A. Veccia, M. Miglietta, P. Picone, L. Leoni, L. Gallo, M. Sicilia / F. Vitali, M. Ogii, T. Liu; Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Asher Fisch regia e luci Gabriele Lavia scene Alessandro Camera costumi Andrea Viotti
Bologna, Teatro Comunale, 4-5 e 24-29 giugno 2022
Al Teatro Comunale di Bologna, l’ultimo giugno operistico è stato tutto dedicato a Giuseppe Verdi, con sei recite di Luisa Miller e altrettante di Otello: allestimenti entrambi previsti nella stagione del 2020, saltati per emergenza sanitaria e ora recuperati con locandine frattanto sottoposte a labor limae. Per Luisa Miller era anzi annunciata, in origine, un’anonima esecuzione semiscenica, infine promossa a spettacolo completo di regia, scene e costumi: ciò va detto benché l’allestimento firmato per intero da Mario Nanni — o da marionanni, minuscolo e tutto attaccato, a modo di brand — sia in verità a tal punto minimale, ascetico e astratto, e dunque lontano dalle copiose, sanguigne e concrete peripezie schilleriane, da varare un clima ancora più concertistico della rassegna di leggii al proscenio. Iperscenica è, tutt’al contrario, la concertazione di un Daniel Oren sempre più slanciato a rottamare il vecchio ricordo di sé quale sommario direttore areniano: la mobilità dinamica, agogica e timbrica suona inesaustibile, palpitante e geniale, e consegna, da un punto di vista per così dire istintivo, nonché in modo complementare rispetto alla più razionalistica lettura di Michele Mariotti all’Opera di Roma, la miglior accoppiata milleriana ascoltata negli ultimi molti anni. Spiace, allora, la menda obsoleta ed evitabile: s’allude al taglio di tramezzo e ripresa della cabaletta di Rodolfo, in quel finale dell’atto II che imporrebbe il rispetto del testo e delle sue proporzioni. Entrambe le compagnie di canto meritano che di loro si riferisca con puntualità. Nella prima v’era un Gregory Kunde non all’apice della motivazione — gestualità impacciata, canto un poco avaro — eppure capace, anche così, quale Rodolfo, di far sobbalzare per tornitura stilistica e portata emotiva. Accanto a lui, nella parte eponima, una Myrtò Papatanasiu spinta ai limiti della propria comodità vocale, e appunto per questo particolarmente vigile, energica e impegnata in espressione patetica e picchi drammatici. Terzo tra i primi, un Franco Vassallo che per natura e indole canora risulta sempre un baritono villain, non grand seigneur, combaciando a fatica con l’orgogliosa onoratezza del vecchio Miller; ma che facile dovizia di mezzi! Con i predetti s’alternavano, rispettivamente, un Giuseppe Gipali che da lungo tempo non s’ascoltava così entusiasta e ardente di spirito romantico, una Marta Torbidoni capace di congegnare un calibro viepiù corposo e una freschezza da adolescente, nonché un Leon Kim rifinito nella tecnica e in grado di mettere assai ben a punto l’amorevolezza paterna. Notevoli, ancora, il sontuoso Marko Mimika e il risentito Abramo Rosalen in avvicendamento come Conte di Walter, Martina Belli come prima, polposa Federica, e Gabriele Sagona come unico, sinistro Wurm.
Rimasto a maturare per un altro anno e mezzo, dall’Otello con regia di Gabriele Lavia era lecito aspettarsi di più. Non è vero, per esempio, come diversi hanno detto e scritto, che il lavoro con gli attori vi attinga esiti di inconsueta naturalezza; né ha senso tenere sempre il coro confinato sul fondo per ragioni di coronavirulenza andate frattanto, per fortuna, smorzandosi; né ha senso, infine, tirare in ballo il teatro-nel-teatro con quella platea abbozzata al proscenio, ma poi rimasta vedova di sviluppo. Più che i costumi storici di Andrea Viotti, i quali rischiano di trasformare il protagonista in un tondo e rubizzo Sir John Falstaff, a fare lo spettacolo, o almeno l’atmosfera, è dunque l’enorme velo che, nelle scene di Alessandro Camera, si contorce dall’alto e arbitra le luci, evocando il fatale fazzoletto. Volontà di grandioso sfarzo sinfonico e di sottili intuizioni cameristiche definirebbero, poi, il lavoro del concertatore Asher Fisch, a tutt’oggi direttore musicale morale del teatro felsineo: non s’è spento il ricordo di un suo Deutsches Requiem di Brahms, di una sua Settima di Beethoven o di una sua Seconda di Mahler diretti con qualità rivelatoria, negli ultimi anni, proprio al Comunale. Ma — santo cielo! — quanta poca attenzione egli riceve dalle maestranze in questo Otello, con continui sfasamenti tra scena e buca, e dentro la buca stessa, dalla prima all’ultima recita, e con quei contrabbassi mai intonati a dovere sul felpato ingresso del Moro nell’atto IV: pasticci ascrivibili allo studio dei professori e non a una bacchetta referenziata. Manco a dirlo, il trionfatore è Kunde come protagonista: non perché la voce manchi dei segni del tempo — lo smalto è logoro — ma perché nessuno, oggi, e nemmeno riferendosi alla sola, temibile parte di Otello, vanta più di lui quell’immedesimazione gigantesca e trascinante, quell’accento teatrale forte più del vigore fisico stesso o quel fraseggio di immediata aristocrazia belcantistica. Un miracolo non tanto di longevità vocale, che pure c’è, ma di carismatica, schiacciante assolutezza artistica. Non sono finite le buone notizie: Roberto Aronica, che s’alterna con Kunde e debutta come Otello, registra qui una tra le sue prove più squillanti, sane, persuasive, e doppia un ulteriore doppio, Arsen Soghomonyan, in ascesa ma ancora limitato da borbottanti gutturalità di scuola slava. Nella Desdemona di Mariangela Sicilia si lodano il fraseggio incisivo e la tecnica di ferro, ma s’avverte la latenza di una caratterizzazione timbrica e volumetrica pari a quella della strumentazione verdiana matura. Misura vocale perfetta, invece, per lo Jago di Franco Vassallo, superato in sottigliezza manipolatrice da quello di Angelo Veccia. Nelle parti di contorno, assortibili con più cura, s’imponeva Luciano Leoni quale austero Lodovico.
Francesco Lora