Wachet auf!
di Piero Rattalino
Wachet auf, ruft uns die Stimme: risvegliatevi, la voce ci chiama. La musica dal vivo, dissanguata dagli sconvolgimenti provocati dalla pandemia, ci implora di dare ascolto alla bella melodia del corale luterano elaborato da Bach. La voce che ci chiama è quella della Storia. Che ci chiede di cominciare a pensare la musica in termini di futuro, di un futuro che non sarà la ripartita del passato. Durante il periodo in cui la pandemia ci ha… messi tutti in buca, le istituzioni che producono e quelle che distribuiscono la musica dal vivo hanno cercato di tenere accesa non una fiaccola, perché non era possibile, ma un lumicino. È stato uno sforzo coraggioso che ha mantenuto in vita un barlume di attività ma che, come è evidente per tutti, non ha futuro. Quando la pandemia verrà archiviata con l’immunità di gregge, il filo interrotto sarà in teoria riannodabile perché il pubblico potrà affluire nei teatri e nelle sale da concerto senza vincoli di numero e di distanze di sicurezza. Ma l’immunità di gregge non significherà ripianamento dei debiti enormi che gli Stati hanno dovuto contrarre. E la vita della musica dal vivo dipende in misura troppo elevata dalle sovvenzioni di denaro pubblico per riprendere tranquillamente il suo corso in un mondo in cui la disponibilità di fondi scarseggerà. Per di più, il mondo, che stava cambiando prima della pandemia, cambierà ulteriormente dopo che il Covid sarà stato battuto o per lo meno tenuto a bada. Non cambierà di colpo, si capisce. Ma cambierà, nel giro di qualche decennio, e forse prima. Wachet auf, dunque.
Potrà esserci, e quale potrà essere in questo nuovo mondo robotizzato la destinazione della musica, e in particolare della musica dal vivo? La mia tesi è che la sopravvivenza della musica dal vivo — insisto sul “dal vivo” — potrà avere, se saprà conquistarsela, una stabile e ineludibile collocazione nel sistema formativo della collettività come educazione permanente, cioè come educazione del cittadino. In qual modo? Se si creerà questo triumvirato:
- Filosofia come palestra del pensiero
- Letteratura come palestra del sentimento
- Musica come palestra dell’emozione
Non si tratta di educare la collettività alla musica, ma mediante la musica. Questa mia tesi è nata dalle mie esperienze di musicista, particolarmente di divulgatore e di didatta, ed è stata dibattuta fra me e me anche con argomentazioni scientifiche che tuttavia — lo so bene — ho maneggiato da dilettante. La sua accettazione, se la tesi si trasformerà in un tema di politica che porterà a un cambiamento epocale nella vita musicale, è dunque condizionata dall’esito di esami e di dibattiti veramente scientifici, affidati a neurologi, psicologi, pedagogisti, filosofi, sociologi, esperti di intelligenza artificiale. E mettiamoci — non so che cosa potrebbe venirne fuori, ma qualcosa verrà — mettiamoci anche il VR e un pizzico di Avatar.
Tralascio per ora il problema dell’inserimento della musica nella scuola fino al compimento del liceo. Nell’attesa che qualcosa avvenga per iniziativa del Ministero della Pubblica Istruzione, del Ministero dell’Università, del Ministero dei Beni Culturali possiamo cominciare a… preparare l’arsenale. Primo problema. Di quale musica servirsi in prima battuta? Musica strumentale, musica corale a cappella, melodramma, Lied? Lo scopo primo, secondo me, dev’essere di far capire il linguaggio del suono, di far capire come il suono racconta e orienta la vita senza dover ricorrere all’ausilio del pensiero. E quindi, musica strumentale, la più atta, secondo me, a educare alla emozione che nasce come risposta spontanea e incontrollabile del corpo al suono e alla sua capacità di essere, come diceva Chopin, la “parola indefinita dell’uomo”.
L’interpretazione della musica dovrà secondo me puntare tutte le sue carte sull’emozione. Il che significa ridiventare a pieno titolo arte e non, come è stata per tutto il corso del Novecento e oltre, cultura. Arte significa creatività, e la creatività è soggettiva e vincolata soltanto alle emozioni dell’artista: in queto caso specifico, però, alle emozioni che la musica muove nell’interprete. Cultura significa sapienza, e la sapienza è oggettiva e vincolata al pensiero del compositore e alla tradizione. Prendiamo atto del fatto che la diffusione della cultura può avvenire, come del resto già avviene, attraverso la rete. Tutto il lavoro che il Novecento ha fatto — secondo me in modo illusorio — nella individuazione del pensiero del compositore e nel mantenimento o nell’abbandono delle tradizioni è in pratica conservato come musica riprodotta ed è disponibile in rete, gratuitamente. Perciò, secondo me, l’alta cultura ha esaurito la sua funzione storica ed è diventata, se non proprio sterile, per lo meno autoreferenziale. Rivendicare alla interpretazione il diritto di essere arte e metterla a disposizione della politica come strumento di educazione del cittadino è il fine a cui dedicarsi, affrontando tutti i problemi — non sono pochi, né agevolmente risolvibili — che si presentano e si presenteranno.
Questa la strategia. Entriamo adesso nel vivo della tattica accennando ad alcuni fra i tanti problemi. Per raggiungere lo scopo prefisso il mezzo più economico è rappresentato dal pianoforte: un solo esecutore o al massimo due per il quattro mani, un repertorio sterminato che va dalla musica di confine alla più alta astrazione. Due grossi atouts. Ma anche un limite. Il pianoforte è una macchina da suono che può sostenere da sola la polifonia, cioè il discorso musicale completo. Ma mentre le due braccia dello strumentista d’arco e dello strumentista a fiato cooperano per produrre il suono, le due braccia del pianista svolgono necessariamente compiti diversi. E ciò limita il linguaggio del corpo, che è invece essenziale nella comunicazione.
Vero è che la limitazione della gestualità e della espressione mimica ancor oggi prevalente è nata, più che da questa necessità, da un tabù: non agitarsi, non scomporsi, non — predicava Couperin — fare grimaces, smorfie. E Mozart, quando ascoltò ad Augusta Nanette Stein bambina, la criticò perché si agitava troppo e in modo scomposto. Le opinioni di Couperin e di Mozart ci arrivano da due pezzi da novanta. Chapeau! Ma vanno contestualizzate. Nel Settecento il clavicembalo e il pianoforte suonati da soli erano appannaggio della aristocrazia e dell’alta borghesia, e il povero tastierista che si dimenava seguendo i moti del cuore si comportava in un modo, per il suo pubblico snob, sconveniente e disdicevole. Contegno, eleganza, signorilità. Tastierista carissimo, tu sei un servo. Un po’ speciale. Ma servo.
Il vento della Rivoluzione francese arriva però a sparigliare il mazzo. Beethoven, suonando e dirigendo, si agita moltissimo, e Schumann dice che Liszt bisogna non solo sentirlo ma vederlo mentre lotta con lo strumento, e Siloti parla della espressione facciale dello stesso Liszt, continuamento mutevole, e l’imperatore Francesco Giuseppe dice a Dreischock di non aver mai visto un pianista che sudi così tanto, e Bartók parla della gestualità esagitata di Sauer, ecc. ecc… Chi ha la mia età ricorda del resto la pantomima da ossesso del Richter anni Sessanta, e ricorda anche come, in età più tarda, Richter fosse diventato una statua. Il tipo-Mozart e il tipo-Liszt sono due incarnazioni di due modi basilari di trasmettere la musica: offrendola alla contemplazione della bellezza, offrendola alla carnalità della passione. Per gli scopi che io indico è oggi funzionale la seconda alternativa, quella attualmente minoritaria.
Un certo e non limitato grado di linguaggio del corpo può essere recuperato. E non solo. Fino a un certo numero di ascoltatori-spettatori, diciamo intorno a centocinquanta, ma anche fino a cinquecento se si usa il microfono, il pianista otterrà con più certezza gli scopi che si prefigge se parlerà al suo pubblico in modo informale e soggettivo, sostituendosi al programma di sala che difficilmente può essere letto prima del concerto e che del resto non è mai di agevole lettura per gli inesperti.
Tutto sommato, il pianoforte può diventare non solo il più economico ma anche il più diretto protagonista nel primo passo dell’educazione mediante la musica. Ma quale è il pubblico che il concertista si troverà davanti? Sarà un pubblico assai parcellizzato o, come diceva Carl Czerny, maestro di Liszt, “misto di tanti svariati umori”. Lo dividerei grosso modo in due categorie: il pubblico totalmente digiuno di musica colta e di limitata cultura generale, il pubblico inesperto di musica ma di buona cultura generale. Questa partizione comporta due tipi di programmazione musicale. Per il primo gruppo serve quello che potrei chiamare il protocollo “Apriamo-il-fuoco”: brani ritmici, brevi, eseguiti in palestra, senza sedie o panche, con l’invito al pubblico di muoversi seguendo gli input della musica. Per il secondo gruppo serve quello che potrei chiamare il protocollo “Angela”, eseguito in sala con sedie: il programma che oltre all’istinto della danza coinvolge l’istinto della pantomima, del teatro, e di cui viene spiega preventivamente, brano per brano, la drammaturgia.
Questo, detto nei termini più semplici, è il piano di battaglia per il primo impatto. Poi entreranno in gioco la musica da camera e la musica sinfonica. Il passaggio dalla strategia alla tattica — sto sempre parlando, si badi, del primo impatto! — non è facile, ma per ora lo lascio da parte. Basti dire che la prospettiva che pongo richiede un rinnovamento della didattica, e anche della mentalità del concertista. La didattica dovrà sposare senza esitazioni la poetica cognitiva, inventare uno stile a essa appropriato e una tecnica che recuperi la varietà del tocco che è stata limitata da quando si è affermato come biomeccanica privilegiata il cosiddetto “rilassamento”. Il concertista dovrà rinunciare a mostrare la sua preparazione da atleta, dovrà cioè voltare le spalle al “virtuosismo fine a se stesso” che da tempo immemorabile viene esecrato a parole ma attuato nei fatti.
Nel 1848 Chopin, che si trovava a Londra, scrisse a un amico dicendo che “per la classe borghese ci vuole qualcosa di straordinario e di meccanico, che io non posseggo”. Lo straordinario e il meccanico lo possedevano Liszt e Thalberg, che se ne servivano però nelle loro spettacolari fantasie su temi di melodrammi o fantasie drammatiche che dir si voglia. Dopo il 1850, quando il recital diventa una istituzione permanente della vita musicale e un possedimento della borghesia imprenditoriale uscita vincitrice dalla rivoluzione del 1848-49, le fantasie drammatiche tendono progressivamente a scomparire, perché il melodramma è, come dirà Gramsci, il nazional-popolare, che per la classe dominante è infettato dalla volgarità. Soltanto la Fantasia sul Don Giovanni di Liszt sopravvive al naufragio del bastimento, restando però in vita stentatamente, e solo fino agli anni Venti del Novecento. È stata ripresa di recente, grimaces comprese, da Lang Lang, che per l’establishment non è però un leader a cui guardare con interesse ma un irregolare da cui guardarsi. E nessuno fra i pianisti maggiori ha seguito Lang Lang.
Escono dal concertismo solistico le fantasie drammatiche. Non escono però lo straordinario e il meccanico, che vengono surrettiziamente introdotti là dove non c’erano. Entrano in tutti gli autori da Beethoven a Schumann, entrano in Chopin. Non faccio esempi. Basti dire che praticamente tutti gli interpreti, a partire da quelli della generazione 1860 di cui abbiamo dischi o rulli di pianoforte riproduttore e giungendo fino ai maggiori, ai minori e ai minimi dei nostri giorni, si comportano di tanto in tanto — e in genere lo sanno fare bene! — come se passassero di punto in bianco dall’automobile al bolide da gran premio.
Per il pubblico del tempo che fu queste dimostrazioni di virtuosismo meccanico erano eccitanti, e lo sono ancora, in parte, per il pubblico tradizionale di oggi. Non lo sono per il pubblico che poco si cura oggi della musica dal vivo, per il quale lo straordinario è il fatto stesso di suonare il pianoforte, non di viaggiare come Speedy Gonzales fra gli scogli taglienti dei “passi” di bravura che di bravura non sono costituzionalmente. Capisco che rinunciare alla dimostrazione di valentia, non tanto per i semidei quanto per chi ha sudato sangue studiando con il metronomo e con le varianti e con i ritmi diversi, capisco, dicevo, che è dura. Ma se ne può fare a meno. E non solo se ne può fare a meno. Facendone a meno si rende un buon servizio a se stessi e a Chopin e a tutti quelli che il meccanico e lo straordinario non li possedevano.
E qui mi fermo. Non me la sono sentita di affrontare un altro tema. Per l’educazione del cittadino serve anche il jazz? In linea di principio direi di sì. Ma la mia competenza in materia è quanto mai rozza, e quindi non vado oltre la opinione generica. E non me la sono sentita di affrontare un altro problema, probabilmente il più scottante: la musica occidentale può essere un mezzo da impiegare per favorire l’assimilazione, o integrazione che dir si voglia, degli africani che si sono stabiliti nel nostro paese? La larga diffusione che la musica occidentale ha avuto in Estremo Oriente — Cina, Giappone, Corea, Sudest asiatico — mi fa essere ottimista. Ma il problema va ben al di là delle mie competenze. Ci sono del resto molti altri problemi da dibattere. Il punto fondamentale, il punto essenziale è però di ascoltare la voce che ci chiama. Wachet auf, Musikanten!
Wachet auf: un’applicazione… pratica!
«Affetti e miti nella poetica di Chopin» relatore Piero Rattalino pianoforte Ilia Kim (Chopin Sonata n. 2 op. 35; Polacca-Fantasia op. 61)
Brescia, Cortile del Broletto, 26 giugno 2021
Ripensare Chopin e il modo di ascoltare la sua musica. Con questo ambizioso obiettivo Piero Rattalino e la pianista Ilia Kim hanno tenuto un’affascinante conferenza-concerto nel Cortile del Broletto di Brescia. Uno dei punti-chiave del discorso è che in seguito alla contrapposizione esplosa a metà Ottocento tra musica a programma e musica assoluta si è annesso il compositore polacco — indebitamente, secondo il relatore — a quest’ultima. Ma davvero la musica di Chopin si può comprendere analizzandone soltanto la struttura? Oppure si fonda, come si diceva un tempo, sulla «poetica del sentimento»? Rattalino fornisce una risposta alternativa alle opinioni dominanti nell’Ottocento e nel Novecento. A suo dire siamo in presenza di una «poetica delle emozioni». Citando la teoria di Antonio Damasio esposta nel volume L’errore di Cartesio, il sentimento è un’elaborazione mentale, mentre l’emozione coinvolge il corpo. Dunque, in questa dialettica «Body-Mind», è il primo dei due termini che nel nostro XXI secolo potrebbe rivendicare i suoi diritti nell’ambito della musica, inclusa quella eurocolta.
Un esperimento? Consideriamo la Sonata op. 35 di Chopin, celebre per la sua Marcia funebre. Secondo Rattalino, la drammaturgia dei primi due movimenti includerebbe riferimenti alla relazione del compositore con George Sand, in bilico tra un forte senso morale d’ispirazione patriottico-cristiana e lo scatenamento della sessualità. «Pochi anni più tardi — ha osservato il musicologo — Wagner avrebbe messo in scena l’orgia del Tannhäuser e un rapporto incestuoso nel primo atto della Valchiria». Il cristiano Tannhäuser si pente e chiede perdono al papa, ma otterrà il perdono divino solo grazie al sacrificio di Elisabeth; nell’op. 35 di Chopin, invece, il perdono non arriva e si sconfina nel nichilismo di cui tuttora discutono animatamente i filosofi, e Rattalino ha citato fra gli altri il pensatore bresciano Emanuele Severino, recentemente scomparso, e le riflessioni di Umberto Galimberti sulla disperazione dell’Occidente.
Il poeta-profeta Chopin, in ogni caso, supererà la crisi personale di cui la Sonata n. 2 reca chiare tracce. Grazie anche alla felice convivenza — almeno per qualche tempo — con la Sand, potrà risalire la china. La Polacca-Fantasia op. 61 si può intendere come una rappresentazione sonora del mito della Heimat: una patria dal passato glorioso, quando la Polonia di re Giovanni III Sobieski fu decisiva nel fermare l’avanzata turca alle porte di Vienna. «Si delinea così — ha concluso il relatore — la Heimat intesa come luogo della mente e come unica possibilità per l’uomo di conquistare la felicità». Ecco, in sintesi, alcuni dei temi trattati in una conferenza davvero traboccante di spunti, che speriamo possano presto confluire in un nuovo libro. La pianista Ilia Kim, bravissima, ha realizzato con suoni sempre ben cesellati i tumulti interiori della musica chopiniana. Avvincente lo sviluppo del primo tempo della Sonata op. 35, delicate e sognanti le parti liriche dei movimenti centrali. Come bis, è stata proposta la Ballata n. 1 op. 23. Comunque la pensiate sul dualismo mente-corpo, il rinnovato ascolto di queste composizioni può convincere chiunque — come ha ribadito Rattalino — «dell’importanza di Chopin nella storia, non solo della musica ma dell’umanità».
Marco Bizzarini