Amiata Piano Festival
Musiche di Franck, Ravel, de Sarasate, Massenet, Chopin, Debussy, Mosso, Cascioli, Colla, Schubert, Mozart, Beethoven e Brahms; pianoforte Gloria Campaner, Maurizio Baglini, Gianluca Cascioli e Alberto Miodini violino Anna Tifu e Ivan Rabaglia violoncello Silvia Chiesa ed Enrico Bronzi
Poggi del Sasso, Sala Musica Collemassari, 25, 26 e 27 luglio 2014
Abbondano di gioventù i concerti dell’Amiata Piano Festival. Nell’estate del 2013 le emozioni erano venute dalla violinista Francesca Dego e dalla pianista Mariangela Vacatello, quest’anno è toccato al violino di Anna Tifu e al pianoforte di Gloria Campaner, protagoniste nella seconda trance del festival, denominata Euterpe, di un recital di grande intensità emotiva. È raro ascoltare una Sonata in La maggiore di Franck così introversa e drammaticamente accesa da due interpreti che non hanno ancora trent’anni. Anna Tifu possiede un suono caldo e profondo, sostenuto da una cavata molto elegante, fraseggia con gusto e supera in scioltezza i passaggi più insidiosi, come gli armonici nella Tzigane di Ravel. Al suo fianco l’inquieta ed estroversa Gloria Campaner si abbandona a qualche guizzo in più, insieme mostrano un’ottima intesa nelle sottigliezze del fraseggio del secondo movimento, affrontato senza alcuna esitazione, nella profondità pensosa del Recitativo, nella vitalità del finale.
Sarebbe quasi bastato il solo l’attacco del Recitativo per dare la misura della personalità musicale della violinista cagliaritana, concentrata, impeccabile, poco propensa alla ricerca della pura brillantezza. La Fantasia sulla Carmen di Pablo de Sarasate, pagina per virtuosi puri abituati ad avere nella brillantezza il loro cavallo di battaglia, un poco ne ha risentito, però anche in questo caso era da ammirare l’aplomb della Tifu, imperturbabile dall’inizio alla fine. Alla fine applausi meritatissimi dalle cento persone che affollavano la Sala Musica Collemassari — cento perché questa è la capienza della piccola sala, in attesa, il prossimo anno, dell’apertura del nuovo Auditorium da quattrocentocinquanta posti — ampiamente ripagati da due bis, tra i quali una splendida Méditation dalla Thaïs di Massenet: un’interpretazione elegante e piena di poesia, capace di far affiorare i gorghi dell’anima nascosti sotto la bellezza delle note.
La serata successiva ha avuto come protagonista Gianluca Cascioli, nella doppia veste di pianista e di compositore. Ex «enfant prodige», pianista dalle mani d’oro, colto e intellettualissimo, abituato a scavare nelle partiture con una cura esasperata, Cascioli sorprende spesso con le sue scelte interpretative, spesso radicali, spesso frutto di una logica portata all’estremo. Da lui ci saremmo aspettati uno Scherzo n. 1 di Chopin raffinato e algido, invece attacca quasi brutale, costringendo chi ascolta a fare subito i conti con l’incandescenza emotiva del mondo spirituale chopiniano. Cambia di continuo il tactus, si sofferma con un acume da scienziato — questo sì un atteggiamento da intellettuale — a sottolineare i più piccoli dettagli costruttivi, lascia alla fine il pubblico sconcertato con un’interpretazione febbrile, per nulla rassicurante. Così è anche il suo Debussy (La fille aux cheveux de lin e La sérénade interrompue dal primo libro dei Préludes), pungente, delicatissimo, quasi freddo, come visto attraverso una nebbia autunnale. Anche il Secondo scherzo di Chopin appare ovattato, lontano: le mani di Cascioli sono prodigiose, solo che lui invece di usarle per sedurre il pubblico le sfrutta per creare sottili iridescenze sonore. Cascioli, insomma, è un virtuoso che non dà alcuno spettacolo. È l’esatto contrario di un pianista estroso e brillante come Fazil Say, che mescola le note come un bravo barman prepara i cocktail più alla moda ed ottiene, a colpo sicuro, l’applauso. Il trentacinquenne pianista torinese, invece, segue con rigore un suo percorso ed è il pubblico a doversi sforzare a comprenderlo. La stessa impaginazione del programma all’Amiata era quanto mai singolare. Due Scherzi di Chopin, due Preludi di Debussy, la Sonata in La minore D 537 di Schubert e quindi la Sonata op. 109 di Beethoven in chiusura di serata. In più una versione per pianoforte a quattro mani dell’Orgelstück für eine Uhr K 608 di Mozart, eseguito con Maurizio Baglini, e due pagine del Novecento quasi contemporaneo, il Secondo quaderno (1986) di Carlo Mosso e il Notturno n. 6 (1968) di Alberto Colla. Infine — ma in realtà il centro emotivo della serata — la Sonata per violoncello e pianoforte che Cascioli ha dedicato a Silvia Chiesa e che la stessa violoncellista ha eseguito, in prima esecuzione mondiale, insieme a Maurizio Baglini.
Di pianisti concertisti che compongono se ne trovano, i pianisti compositori sono invece rarissimi. Cascioli appartiene a questa seconda categoria e la sua Sonata lo dimostra. Porta il sottotitolo «La sincronicità» ed è ispirata all’omonimo saggio di Carl Gustav Jung, eppure i suoi brevi undici movimenti tengono letteralmente senza respiro l’ascoltatore, che viene rapito in un panorama sonoro surreale e sconvolgente. Accade fin dalle prime battute, con il pianoforte solo raggelato e vitreo, in un brusio sonoro rallentato fin quasi allo stallo temporale. Così un brano dichiaratamente intellettuale, fin dal titolo, ha sprigionato una straordinaria forza emotiva, anche in virtù dell’interpretazione impeccabile e accesa di Baglini, direttore artistico del Festival, e soprattutto di Silvia Chiesa, in una parte ai limiti (si vedano certi passaggi in glissando) delle possibilità fisiche del suo strumento.
La Sonata rende piena giustizia alla personalità artistica di Cascioli. Capiamo allora perché abbia scelto di eseguire, nella stessa serata, una pagina asciutta e lucida come il Secondo Quaderno di Mosso, capiamo il suo Schubert iridescente e sottile, la sua Op. 109 beethoveniana notturna e straniata. Proprio quella della 109 è un’interpretazione estrema, discutibile, spiazzante. Un suono caldo, legatissimo, un fraseggio lento all’inverosimile, in cui emerge ogni piega del tessuto contrappuntistico. Una superficie fredda, dietro la quale si agita il fuoco. Il secondo movimento febbrile, il terzo intimo e cantabile. Capiamo che il minuzioso lavoro di Cascioli sulle sfumature timbriche, la sua ossessiva ricerca del dettaglio, nascono da una mente che si sprofonda nella partitura, una mente sorretta da una mano in grado di muoversi sulla tastiera con una naturalezza che pochi pianisti posseggono. In disco Cascioli non sempre ci ha convinto. In un programma simile, pensato evidentemente a lungo e con cura, la prospettiva cambia e appare in tutta evidenza una personalità musicale — di pianista e ancora più di compositore — di grande rilievo. Anche in prospettiva futura.
Altro è stato il registro della serata con il Trio di Parma, a conclusione di questa seconda trance del Festival (le trance sono tradizionalmente programmate a fine Giugno, a fine Luglio e a fine Agosto), giunto quest’anno alla decima edizione e come negli anni passati interamente finanziato dalla Fondazione Bertarelli e dalla Cantina Collemassari. Alberto Miodini, Ivan Rabaglia ed Enrico Bronzi si sono lanciati a capofitto nel Trio n. 1 in Si maggiore op. 8 di Brahms in una lettura accesa ed estroversa, tutta giocata sul seducente amalgama timbrico che hanno forgiato in anni di militanza comune. Sullo stesso humus passionale nasceva l’interpretazione del più riservato Trio in La minore di Ravel, affrontato di slancio, appassionato anche quando il suono e il fraseggio (nel primo movimento) erano molto contenuti, come se la tensione repressa fosse sempre sul punto di esplodere, soprattutto in un finale incandescente e sonoro.
Luca Segalla
©Carlo Bonazza