
BACH Corale Herr, unser Herrscher dalla Passione Secondo Giovanni, BWV 245; Siciliana dalla Sonata per flauto in mi bemolle maggiore, BWV 1031; Suite per tastiera in la minore, BWV 818a; Aria Aus Liebe will mein Heiland sterben dalla Passione Secondo Matteo, BWV 244; Suite per liuto in mi minore, BWV 996 RAMEAU Estratti dalla Suite per tastiera in la minore, RCT 5 RAVEL Miroirs, op. 43 DUKAS L’Apprendista stregone pianoforte Alexandre Tharaud
Lugano, LAC, 2 aprile 2025
BACH Partita II in do minore BWV 826 CHOPIN Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1; Notturno in la bemolle maggiore op. 32 n. 2; Scherzo n. 4 in mi maggiore op. 54 SHOSTAKOVICH Sonata n. 2 in si minore op. 61; 2 Preludi e Fuga dall’op. 87: n.15 in re bemolle maggiore e n. 24 in re minore pianoforte Evgeny Kissin
Milano, Sala Verdi, 3 aprile 2025
Due pianisti a distanza di ventiquattr’ore, uno per la stagione di Lugano Musica al LAC, l’altro per il concerto straordinario della milanese Società dei Concerti in Sala Verdi, impongono qualche riflessione a confronto, visto anche che i due artisti, Alexandre Tharaud e Evgeny Kissin, sono quasi coetanei (nato nel 1968 il francese e nel 1971 il russo) ed hanno proposto un programma sì molto diverso, ma che comprendeva sempre una prima parte bachiana e con il celebre Siciliano in comune (per Tharaud in una propria trascrizione, per Kissin — che l’ha suonato come primo bis — in quella “canonica” di Kempff). Forse non sarebbe giusto paragonare la carriera di uno dei pochi, veri miti del pianismo degli ultimi decenni, che a sei anni entrava alla Gnessin, a 10 debuttava con orchestra, a 13 incideva i due Concerti di Chopin con Kitaenko e a 17 suonava il Primo di Ciaikovski con Karajan, con il pur raffinato e acclamato collega francese, che ha saputo trovare, in un mondo sempre più omologato musicalmente, una voce singolare e riconoscibile. Ma i due programmi e i due concerti hanno detto molto sul loro attuale “stato” musicale.
Partiamo da Tharaud: la cui prima metà del concerto — diviso come una volta tra “antichi” e “moderni” — proponeva il suo celebre Rameau (è stato uno dei primi a suonarlo con costanza al pianoforte) in una breve selezione dalla Suite in la minore RCT 5: abbellimenti suonati con grande disinvoltura, un uso del pedale volto a rivendicare la dimensione pianistica dei brani, una libertà espressiva quasi assoluta, che non sfiora l’anarchia solo perché indirizzata a comporre un pianismo personalissimo e di grande afflato poetico. Così come il suo Bach presentava solo una raccolta nata per tastiera (la Suite BWV 818a), preferendo poi Tharaud compiere un percorso di personali trascrizioni che partiva addirittura dal Corale di apertura della Passione secondo Giovanni per toccare l’aria con flauto solo dall’altra Passione, il citato Siciliano e una Suite per liuto. Un Bach che respirava con colori morbidi, dal tocco sottilmente differenziato e generosamente pedalizzato, dove la trascrizione era quasi riscrittura e il fraseggio delibato secondo un percorso capriccioso eppure intimo, fatto di improvvise accelerazioni e subitanee stasi (ad esempio, nello stacco lentissimo di “Aus Liebe”). Potrà non piacere, ma è singolarissimo. Nella seconda parte, il suo Ravel era pregevole più per la creazione di grandi macchie timbriche, di effetti spazializzanti che per la brillantezza digitale: Tharaud non è un virtuoso in senso stretto e la sua Alborada del gracioso mancava della zampata brillante. Curiosa, infine, la scelta di proporre la versione pianistica dell’Apprendista stregone di Dukas (che peraltro non si sente mai in concerto): accantonata la versione di Staub, “tradizionalmente” virtuosistica in senso quasi lisztiano, che abbrevia la partitura e che è pianisticamente molto ben scritta (la suona anche Yuja Wang), Tharaud ha cercato di rendere tutti gli effetti teatrali e timbrici del poema sinfonico, a costo anche di qualche momento volutamente grottesco. Un lavoro un po’ ruffiano, ma piacevolissimo, che ha portato dritti poi ai bis, due chansons francesi (sempre da lui trascritte), la seconda delle quali era la notissima Padam, Padam.

Se Tharaud ha sempre percorso, specialmente nella prima parte di carriera, strade alternative (anche e soprattutto a livello discografico) per arrivare alla propria definizione di artista maturo, Kissin — come ho detto prima — è stato l’esempio tipico del Wunderkind, oggi però arrivato a piena e impressionante maturazione: tornato in quella Sala Verdi che da decenni lo ama, e che lo ha visto arrivare bambino grazie all’intuizione del compianto Antonio Mormone, la cui meritoria opera oggi è portata avanti da Enrica Ciccarelli, Kissin è stato accolto da un pubblico che riempiva ogni singolo seggiolino dell’ampio spazio con affetto davvero travolgente.
Partendo con un “classico” come la Seconda partita di Bach, il pianista moscovita ha confermato non solo il totale dominio della cifra tecnica, ma un approccio piuttosto tradizionale, fatto di suono sgranato e luminoso, una certa regolarità di tempi e di dinamiche, e una cura minuziosa dei dettagli e dei piani sonori, fino a una Sarabande dalla perfetta linea, senza compiacimenti e totalmente leggibile. Che è poi il Bach che Kissin ha imparato a Mosca da bambino e che, con pochi cambiamenti, continua a proporre, senza eccessivi scossoni.
Tutt’altro mondo con Chopin: già a gennaio dello scorso anno Silvia Limongelli, recensendo il suo concerto milanese (vedi qui), notava, a proposito del Notturno op. 48. n. 2, che «ha assunto una dimensione epica che ha travalicato la dimensione della pagina di genere per assumere una cifra tragica e, al contempo, trasfigurata»: lo stesso si può dire di come Kissin ha miniato il Notturno in do diesis minore op. 27 n. 1, sussurrato fin dall’inizio in un clima alonato dal pedale e poi svolto con un fraseggio cupo, doloroso, drammatico, davvero impressionante. E anche lo Scherzo n. 4 proseguiva l’idea di uno Chopin anti-sentimentale, lucido, senza compiacimenti, con una chiarezza di linea quasi… bachiana, anche nei trilli sgranatissimi.
La seconda parte della serata era dedicata a Shostakovich: la Sonata n. 2 risale al 1943, durante la guerra, ed è — come sottolinea Piero Rattalino — un tipico esempio di musica “per il cassetto”, ossia musica reservata, quasi più per la lettura privata che per l’esecuzione pubblica, tanto che — pare — lo stesso autore l’avrebbe in qualche modo “rinnegata”. Indubbio che i tre movimenti, per mezz’ora di musica, richiedano all’ascoltatore una concentrazione particolare, specie in quel lungo adagio centrale di aforistica semplicità: una Sonata che ha poco attratto i grandi pianisti (con l’eccezione di Gilels), e che Kissin ripropone (con lo spartito davanti) con la consapevolezza della sua natura “motoristica”, nell’attacco del primo movimento, che fa vedere in filigrana ancora una volta l’eredità settecentesca, ma anche del vitalismo disperato, attaccato ai lacerti della forma tradizionale (tema con variazioni) del terzo movimento. Una lettura diversa da quella che ne dava, ad esempio, Egorov, che immergeva questa mezz’ora di musica nelle nebbie timbriche di un continuo cupio dissolvi, ma di implacabile, lucidissima e quasi spietata analisi, poi confermata nei due Preludi e fuga più incredibili dei 24 di Shostakovich: il 15esimo, sorta di scherzo con trio spinto ai bordi della dodecafonia, e il 24esimo, nella cui gigantesca fuga finale vengono rievocati i fantasmi della storia del pianoforte, come ancora una volta ricorda (ed è riportato giustamente nel programma di sala) Piero Rattalino, da Bach a Busoni passando per Liszt. E la concentrazione, la lucidità tecnica di Kissin hanno fatto leggere benissimo questa stratificazione.
Il successo delirante ha portato a tre bis: il citato Siciliano (molto più asciutto rispetto a Tharaud a Lugano), il Valzer op. 64 n. 2 in coda e in mezzo nientemeno che lo Scherzo n. 2, dove si è rivisto il Kissin di un tempo, il virtuoso eccezionale che, per un attimo, ha accantonato l’interprete maturo e consapevole che oggi è diventato. Ma va bene così: da parte nostra, non si può che ringraziare un artista così immenso.
Nicola Cattò