MOZART Die Entführung aus dem Serail S.E. Bechtolf, J. Pratt, J. Delfs, D. Behle, M. Laurenz, P. Rose, M. Merlini; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Thomas Guggeis regia Giorgio Strehler scene e costumi Luciano Damiani
Milano, Teatro alla Scala, 29 febbraio 2024
Dell’opportunità di riproporre lo storico allestimento del Ratto dal serraglio firmato da Giorgio Strehler avevo già detto sette anni fa (leggi qui), quando tornò per l’ultima volta al Piermarini, e naturalmente le mie opinioni non sono cambiate: ma, quantomeno, la regia mi è parsa ripresa (da Laura Galmarini) con più cura, qualche lazzo e qualche battuta in italiano ha reso l’atmosfera più briosa e, insomma, pur mantenendo un forte scetticismo verso quello che già al suo apparire non sembrava tra i lavori migliori del grande regista triestino e soprattutto verso la sua capacità di funzionare ancora sessant’anni dopo, la serata scorreva con grande fluidità. Ma questo lo si deve al deciso cambio di passo in buca: dalla sonnolenza del venerabile Zubin Mehta si è passati al trentunenne Thomas Guggeis (intervistato su MUSICA di febbraio), allievo di Daniel Barenboim, eppure ben più di lui versato nel teatro di Mozart. Una direzione, la sua, di altissimo livello: un’orchestra dal suono sempre denso, corposo eppure guizzante, dalle articolazioni nervose e dai tempi briosi, che però brilla di una vivacità, di una capacità di cambiare umori e atmosfere in pochi secondi che sono l’essenza del teatro mozartiano e del Ratto, gioiello davvero inclassificabile, in particolare. Nella grande aria “Martern aller Arten”, felicemente concepita da Strehler come pezzo da concerto avulso dall’azione, non solo erano splendidi gli interventi delle parti concertanti (ma l’intera orchestra scaligera ha offerto una prestazione degna di lode), ma soprattutto colpiva il fraseggio leggermente survoltato, “sopra le righe” che benissimo rendeva la natura di questa aria così smisurata. Il quartetto del secondo atto, con il suo scavare a fondo nell’animo delle due coppie di innamorati, è certamente il cuore espressivo dell’intera opera: Guggeis ne ha rese tenerezze e oscurità con mano sapiente e sorprendentemente matura. E non è da trascurare l’importanza dell’inserimento di parche, ma efficaci variazioni nelle ripetizioni strumentali, secondo prassi esecutiva.
Cast molto felice, nel suo complesso: pur privato di “Wenn der Freude Tränen” — evidentemente un’imposizione registica, infelicissima — Daniel Behle (anch’egli intervistato nel numero di febbraio della nostra rivista) spicca per un timbro nobilmente virile, uno squillo schietto degli acuti, una capacità davvero deliziosa di assottigliare il suono fino a pianissimi che però sono sempre ben appoggiati e perfino una coloratura assai baldanzosa nella temibile “Ich baue ganz”. Un Belmonte, insomma, degno dei migliori confronti, e ben supportato dal Pedrillo di Michael Laurenz, che replica gli stessi modelli vocali con maggiore esuberanza e uno squillo quasi insolente. Peter Rose, un veterano come Osmin, evita le volgarità di cui spesso la parte viene infarcita, e se il suo Re basso non è esattamente un colpo di cannone, la vocalità morbida, omogenea, e l’accento simpaticamente canagliesco hanno convinto il pubblico. Una curiosità la presenza del regista Sven-Eric Bechtolf nella parte parlata di Selim (non del tutto convincente, a dire il vero…), apprezzabile, nonostante un incidente sul Mi sovracuto dell’aria, la Blonde di Jasmin Delfs, resta da dire di Jessica Pratt, che tornava dopo tempo alla Scala: non mi è parsa, a essere onesti, nella sua forma migliore, perché nell’aria del primo atto (“Ach, ich liebte”) ha messo in mostra un vibrato largo e incertezze di intonazione che non le sono consuete. Poi si è ripresa, ma l’impressione di una serata non felicissima era difficile da allontanare: nonostante, va detto, la classe che le ha consentito una brillante esecuzione di “Martern aller Arten” (premiata da grandi applausi) e una voce — fattasi notevolmente più voluminosa e scura anche nei centri — innervata da un fraseggio ricchissimo di accenti, intenzioni e ottime idee. E anche questa volta, l’operazione-nostalgia è andata in porto con successo: resta da capire dove voglia andare la Scala a livello registico, avendo allineato nei primi titoli di questa stagione approcci tra loro incompatibili e molto raramente convincenti.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala