PUCCINI Madama Butterfly B. Ismatullaeva, M. Lippi, K. Chubunova, D. Salerno, M. Patti, M. Chiarolla; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Dmitri Jurowski regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti
Torino, Teatro Regio, 18 giugno 2023
“A Nagasaki. Epoca presente”. Così l’indicazione sul libretto della Butterfly. Già, ma quale “presente”? Il 1904 della composizione, o il 2023 in cui noi assistiamo allo spettacolo? Damiano Michieletto, in questa sua fortunata regia del 2010, riproposta per la terza volta a Torino (e in altri teatri), sceglie la seconda ipotesi, anzi — a voler essere precisi — un momento tra gli anni ’80 e ’90, se vogliamo analizzare il modello di auto con cui Pinkerton e Sharpless entrano in scena nonché certi riferimenti ai fumetti tipici di quegli anni. Giusto? Sbagliato? Questa è l’eterno problema della cosiddetta “attualizzazione” delle regie liriche, problema certo non affrontabile in poche righe di una recensione e alla fine destinato a dividere in maniera inconciliabile coloro che nel teatro (di ogni tipo) cercano una tranquillizzante conferma di ciò che già sanno, o credono di sapere, e coloro che invece vogliono essere messi alla prova, perturbati, che vogliono conoscere sé stessi attraverso quello che vedono in scena. Michieletto ambienta l’intera vicenda in una periferia di qualche megalopoli asiatica, dove gli occidentali vanno a fare turismo sessuale, fra passerelle di metallo e grandi cartelli pubblicitari, che uniscono caratteri giapponesi e cinesi (ringrazio un amico per la consulenza linguistica!), a conferma di una sorta di melting pot culturale: se nella Butterfly pucciniana un tema fondante è lo scontro di culture, tra un Occidente superficiale, aggressivo e violento, ed un Oriente ugualmente crudele sotto la patina di una tradizione che ingabbia le persone nei suoi millenari rituali (con l’eccezione dei due personaggi “positivi”, Sharpless e Suzuki), qui le due culture si sono ormai fuse nel punto più basso e degradato, tra alcolici e chioschetti di street food, con al centro un grande cubo dalle pareti trasparenti, pieno di pupazzi e giocattoli, dove la farfalla Cio-Cio-san è imprigionata. E se nella sua entrata Butterfly porta ancora il tradizionale ombrellino orientale — simbolo di una tradizione ormai degradata a souvenir touristico — nel finale, dopo un primo tentativo con il pugnale del padre, il suicidio sarà compiuto con una ben più occidentale pistola. Spettacolo duro, ricchissimo di dettagli, sempre coerente anche nell’illustrazione dei dettagli del libretto (“Nagasaki! Il mare, il porto”: e qui Sharpless vede non già il panorama ma un dipinto mostratogli da un venditore ambulante), in cui la degradazione umana e morale investe tutti, senza scampo: e grazie ad una recitazione curatissima, arriva al cuore della poetica pucciniana con una inevitabilità e una efficacia infallibili. E in questo mondo di derelitti, ancora maggiore è l’effetto dei piccoli tratti di umanità e di poesia: dal coro a bocca chiusa animato da una sorta di processione di persone munite di una piccola fiaccola, al rapporto di vero affetto che intercorre tra Suzuki e Cio-Cio-san.
La parte musicale non è stata certo memorabile: Dmitri Jurowski impostava una concertazione molto regolare, fin troppo smussata nei contrasti armonici e dal ductus ben prevedibile, mentre Matteo Lippi era un Pinkerton che solo nella terza acuta conosceva un certo squillo, mentre nei centri il volume era davvero ridotto. Discreti sia Damiano Salerno come Sharpless che Ksenia Chubunova come Suzuki (nonostante troppe asprezze vocali); e infine la protagonista, l’uzbeca Barno Ismatullaeva, è certamente ancora acerba e spesso timida, ma la voce ha una sua piacevole compattezza, il legato e lo squillo degli acuti sono pregevoli e il personaggio emerge con crescente convinzione. Un’artista, insomma, da tenere d’occhio. Alla recita domenicale, grande successo dopo l’iniziale spaesamento del pubblico che non conosceva ancora lo spettacolo di Michieletto.
Nicola Cattò
(Foto: Andrea Macchia)
PUCCINI Madama Butterfly V. Yeo, A. M. Chiuri, E. Buachidze, D. Popov, R. Frontali, C. Bosi, L. Leoni, E. Niave; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Roberto Abbado; regia Alex Ollé (La Fura dels Baus) scene Alfons Flores costumi Lluc Castells
Roma, Teatro dell’Opera, 18 giugno 2023
Che qualcosa non andasse domenica scorsa al Teatro dell’Opera di Roma se n’era accorto il più che numeroso pubblico che affollava la sala del Costanzi: e dopo un quarto d’ora di ritardo sull’orario era partito il classico “applauso di sollecito”. In breve è apparso il Sovrintendente Giambrone che, dopo le scuse, ha comunicato che per ragioni di salute Eleonora Buratto non avrebbe cantato e che era da cinque minuti arrivata in teatro – dopo quattro ore di macchina a tavoletta da Bari (dove al Petruzzelli aveva in corso le prove di Otello) – Vittoria Yeo. Sostituzione invero assai pregevole, come ci accingiamo a dire. Partendo però, stavolta, dallo spettacolo. Pensato da Alex Ollé nel 2015 per le Terme di Caracalla, qui ripreso nel 2016 e poi trasferito al Circo Massimo nel 2021. Portato al chiuso ci è sembrato che tutto il senso d’una regia, che avevamo noi stessi recensita come interessante assai, che la sua carica di graffiante originalità, ne sia andata per gran parte perduta. L’opera (come la vedemmo) era agita in un’epoca (recente) di palazzinari senza scrupoli e di abusi edilizi. Poche le tracce d’un Giappone tradizionale in un primo atto con abiti in moderni e un catering di nozze con tavoli e sedie di verissima plastica. Il risveglio alla realtà nell’atto successivo mostrava la “casa a soffietto” trasformata in un incompiuto rustico di cemento su uno sfondo di palazzoni intensivi. Smessa “l’obi pomposa”, madama Pinkerton viveva in pantaloncini inguinali e top a stelle e strisce, in un totale disordine di panni stesi e secchi di spazzatura. Riprese le vesti rituali, morirà nascosta in cucina. Di tutto ciò ora è rimasto anche meno d’un terzo: la tematica del “là dove c’era l’erba ora c’è”… è stata appena accennata, così il catering nuziale è stato appena intuibile, la casa miserrima, sproporzionata al Costanzi, è sembrata un torrione. E Mrs. Pinkerton non ha osato le tenute succinte che avevano osato la Grigorian e la Aksenova. Sì che tutto allora è parso non troppo comprensibile.
Ad Yves Abel, che nel 2015 e nel 2016 diresse lo spettacolo di Ollé, rimproverammo un decorativismo – ossia leggerezza e bel suono — che di Butterfly poneva a margine ogni passione. A Roberto Abbado poniamo il rimprovero inverso: dopo un primo atto nel quale è senz’altro giustificabile un incedere guardingo e qualche incoerenza, tutta la seconda parte (Secondo e Terzo atto eseguiti senza soluzione di continuità) ci ha dato la fondata sensazione ch’egli veda la Butterfly come una sorta di dramma totale, violento e aggressivo nel suo rifiutare ogni articolazione fra sogno e realtà, fra le dolcezze dell’illusione e l’amarezza della conoscenza. Con un suono forse più giusto per l’Elektra di Strauss, Abbado ha fatto del lungo cammino (mai invero parso così lungo) che va da “Un bel dì vedremo” ai tre “Butterfly!” finali, una sorta di clamorosa e lugubre marcia al supplizio. Lasciando in ombra (anzi al buio) la reale, ultima istanza della partitura: una “commozione” alla Giovanni Pascoli, sì dolorosa, ma intima e dolcissima e stupendamente agghindata d’un liberty mai così floreale; e non le risonanze espressioniste d’una tragedia cosmica. Non lo dice la geisha stessa: “Noi siam gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose, ad una tenerezza sfiorante e pur profonda…”?
La performance di Vittoria Yeo ha avuto del miracoloso, non solo considerando il frangente che l’ha portata a Roma. Forse nella scena d’ingresso e nelle successive sequenze di mero “canto di conversazione” c’è stata un’inevitabile prudenza, rilevabile soprattutto da qualche avarizia di sfumature. Dal rinnegamento dei parenti in poi invece, la sua Cio-Cio-san è stata in continuo crescendo. La lettura del personaggio è intensa, vibrante, moderna (un filo meno di quella di Asmik Grigorian), severa a tratti. Il metodo e il timbro sono indubbiamente di qualità superiore: per il velluto morbido e scuro, per il ductus sempre espressivo e originale dei fraseggi, per un consumarsi nel personaggio che oggi – in un’epoca che vede spesso buoni cantanti, ma quasi mai grandi interpreti – è un riscontro assai raro. Il duetto finale del Primo Atto ha trovato per lei slanci appassionati, finezze ma non fragilità. In “Un bel dì vedremo” ha forse patteggiato con la frase “Io senza dar risposta me ne starò nascosta”, ma nel resto ha infuso un fremito speciale assai. E nel seguito ha dato luogo ad una raffigurazione del personaggio di verità nella scena e di nobiltà nel canto assolutamente straordinarie. Fino ad un “Tu? Tu? Piccolo iddio” che di tal rango drammatico non sentivamo da anni. S’è avuta applausi indicibili.
Accanto a lei non è che ci fossero miracoli. Dmytro Popov avrà pure un color di voce assai bello, ma canta a strattoni e senza alcun approfondimento. Anna Maria Chiuri è stata una buona Suzuki, ma non poi qual si potrebbe per una figura assai meno appartata di quanto non sembri. Roberto Frontali ha fatto suo uno Sharpless appena sgarbato, ormai assai più parlante che cantante. Di ottima vaglia tutte le parti di fianco e commendevolissimi sia l’orchestra, sia soprattutto il coro. Ora l’Opera si trasferisce alle Terme di Caracalla, fino ai primi d’ottobre, quando Mariotti dirigerà al Costanzi il Primo Atto della Valchiria di Wagner in forma di concerto.
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni