PUCCINI Tosca Anna Pirozzi, Vincenzo Costanzo, Amartuvshin Enkhbat, Domenico Colaianni, Carlo Bosi, Gabriele Sagona; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Alessandro Talevi scene e costumi Adolf Hohenstein (ricostruzione di Carlo Savi e Anna Biagiotti)
Roma, Teatro Costanzi, 14 dicembre 2023
Come ogni anno l’opera romana di Puccini, Tosca, torna nel suo romano Teatro dell’Opera a garanzia di sold out, di soddisfazione per chi vuol vedere un melodramma come l’ha sempre pensato (e non come lo vuole il tale o talaltro allogeno regista in vena di épater les bourgeois), magari di un’esecuzione di ottimo o almeno decoroso livello. Più o meno tutto si è verificato per le tre recite della suddetta Tosca che il Teatro dell’Opera di Roma ha messo in cartellone a non troppa distanza dalle feste di Natale (con sprezzo del traffico e degli ingorghi che assediavano furiosamente Piazza Gigli). Certo qualche patema d’animo c’è stato: il Cavaradossi previsto, Vittorio Grigolo si è dileguato, venendo sostituito da Fabio Sartori che alla terza recita si è anche lui dileguato a favore di Vincenzo Costanzo. Erwin Schrott ha cantato solo nelle prime due recite, lasciando poi parrucca e polpe di Scarpia ad Amartuvshin Enkhbat. La sola Anna Pirozzi dunque ha mantenuto ben salda posizione e ruolo protagonistico.
Quanto alla ricostruzione della messa in scena della prima assoluta di Tosca a Roma ormai di prammatica, si è più volte scritto: e non vi ritorneremo se non per dire che (con tutto il rispetto per la filologia dell’operazione) che essa a noi sembra fragile e modesta, sì che continuiamo a preferire la maestosa versione che Ettore Rondelli ne aveva tratto per Mauro Bolognini (e in uso dal 1964 al 2010, con le brevi parentesi d’una scenografia di Mario Ceroli e della produzione di Franco Zeffirelli). Oltretutto la regia di Alessandro Talevi non arrivava a compensare né taluni momenti di confusione, né talune debolezze attoriali, soprattutto della protagonista. Ossia di Anna Pirozzi: oggi soprano drammatico accreditato sui massimi palcoscenici dell’orbe e dell’urbe ivi compreso l’audace Callas at the Herodium, nel quale lo scorso settembre la cantante di Giugliano ha riproposto (più o meno) il programma che nell’Anfiteatro di Erode Attico era stato della Callas il 5 agosto del 1957. Di poco meno audace ci è parso questo suo volersi calare in un personaggio dalle istanze singolari e diverse da quelle a lei ora usuali (e prevalentemente verdiane). Precipuo il carattere: ossia un atteggiamento come “sempre in scena” della diva di successo, un passo fatale e seducente, una sensualità che assomma in sé quella di un’intera città. Si son visti invece costumi mal adattati, un incedere sovente impacciato, nessuna sublimazione del banale in teatralità o in metafora. Vocalmente la Pirozzi ha un ben di Dio di voce, ma la scrittura di Tosca è tutta sul canto di conversazione, tutta su una continuità di linee che va dal parlato alla piena effusione melodica senza strappi, senza alternare cadute di tono e di tensione a slanci sonori eccessivi e prossimi (la “lama”) al grido. Un “Vissi d’arte” invero molto bello ha peraltro suscitato sinceri applausi.
Assenti gli altri, ci ha fatto piacere ascoltare per la prima volta a Roma il giovane napoletano Vincenzo Costanzo (Pinkerton per antonomasia un po’ dovunque). La cui voce non è eccezionale (un leggero vibrato e un colore di suo un po’ monocromo), ma che scenicamente par un Cavaradossi dal vero e che manovra la dinamica e gli accenti in modo magistrale, forse con un po’ di nervosismo alla sortita, ma poi in crescita per tutta la recita e latore infine di un “E lucean le stelle” veramente ragguardevole. Da Amartuvshin Enkhbat era legittimo aspettarsi l’irruzione in teatro di una delle più belle e potenti voci di baritono oggi in circolazione. Ed in effetti, sin da “Un tal baccano in chiesa?!”, il cannone della Mongolia ha ben fatto risuonare i suoi temibili bronzi. Solo che Scarpia, ancor più di Tosca, è un fine conversatore, è un affabulatore che basa adulazione e profferte, passione e sadismo, superbia e magniloquenza, sulla bulinatura della parola, sui sensi espressi, allusi o nascosti di questa e sull’efficacia talor devastante che ne promana. Enkhbat ha per contro portato in scena uno Scarpia monolitico, che gioca l’espressione sulla naturale bellezza del timbro, sull’irruenza dell’accento, ma anche su qualche eccesso d’una qualità non prorprio raffinata ed oggi un po’ anacronistico.
Ricordato brevemente il Sacrestano veramente poco incisivo di Domenico Colaianni, diremo senz’altro che molti dei tantissimi presenti erano l’altra sera al Costanzi per la direzione di Michele Mariotti. Che ci sembra aver affrontato l’opera con mente e orecchie libere da riferimenti passati o presenti. Con uno sguardo fisso e limpido sulla partitura, che è stata resa con quella stessa nettezza di suono e di linee che avevamo riscontrato nel Mefistofele, qui forse ancora con qualche acerbità in un Primo atto non troppo coeso, ma con certi scatti drammatici (mai retorici e volgari) nel Secondo e con un Terzo atto che, fin dai corni d’apertura, s’è affermato come una delle migliori letture da noi ascoltatene in loco. Per una perfetta calibratura, in abile successione, dei vapori ammalianti che salgono dalla città dormiente, dei risvegli di personaggi umani e di temi strumentali di lugubre inflessione; per un vibrante eppur desolato sostegno all’aria del tenore; per uno scatenato ed inarrestabile precipizio drammatico che già si mostra appieno nel convulso duetto degli amanti e poi nel velocissimo finale. Opera questa per Mariotti certo da riproporre: e da mettere a fuoco integralmente, per un esito che potrebbe essere da non perdere.
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni