PUCCINI Tosca L. Monastyrska, G. Berrugi, C. Sgura, D. Colaianni, L. Leoni, A. Giovannini, C. Finotti; Orchestra, Coro e Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Pier Giorgio Morandi regia Alessandro Talevi scene Adolf Hohenstein
Roma, Teatro dell’Opera, 12 dicembre 2019
Divenuta da tempo un classico del Teatro dell’Opera di Roma, la Tosca — con le scenografie originali della prima del gennaio 1900, dipinte da Adolf Hohenstein, ricostruite nel 2015 e con la discreta con la regia di Alessandro Talevi — viene al Costanzi giustamente e continuamente ripresa: con certezza di gradimento e sold out al botteghino. Così è stato per quest’edizione decembrina, in singolare risposta di tempi e in totale diversità di modi rispetto a quella che ha da poco inaugurato la stagione scaligera. Premesso che nostra preziosa memoria resta a Roma la reinvenzione che di tal allestimento firmò nel 1964 Mauro Bolognini, coadiuvato da Ettore Rondelli e dai costumi liberty di Anna Anni (vi s’alternarono la Crespin e la Kubiak, la Kabaivanska, la Marton e la Dimitrova), diremo che qui soprattutto il primo e l’ultimo atto conservano un’opulenta bellezza d’immagini, un’ attendibilità storica, una logicità di svolgimento invero assai confortanti “in tempi d’assegnati” quanto mai burrascosi sui palcoscenici dell’orbe operistico.
Dalla proposta musicale, sulla carta accattivante quanto a nomi, ci saremmo per contro attesi qualcosa in più. Soprattutto da Lyudmila Monastyrska, al debutto sul palcoscenico del Costanzi, ma non a Roma, ove era già venuta per un Ballo in Maschera con Meli, Hvorostovsky e Pappano a Santa Cecilia. Ora il soprano ucraino ha portato il suo repertorio verso ruoli i più drammatici possibili (Abigaille, Aida, Lady Macbeth) ed ha spinto la sua pur grande e bellissima voce (che a tratti riempiva il teatro) a gonfiare i centri, ad acuminare vieppiù gli acuti e a rendere talora i fraseggi percussivi oltre misura. Così della sua Floria va ricordato soprattutto un primo atto realmente superbo, non solo per una quantità di colori e di sfumature esemplari, ma per una sensualità viva e carnale, tal da rendere prima il suo “Non la sospiri la nostra casetta” d’una malia avvolgente e irresistibile, poi il suo “Dio mi perdona, egli vede ch’io piango!” espressione vibrantissima d’una infranta attesa di folli amori. Nel secondo atto la tentazione di trasformare la violenza dei confronti con Scarpia in esagitazione e grido, di far della “diva de’ teatri” una popolana sortita dal vicino Campo de’ Fiori, non è stata che di rado respinta. La sosta necessaria d’un morbido e sofferto, “Vissi d’arte” ha ancora mostrato la vera vocazione (di stile e di canto) della Monastyrska. Cui va ascritto anche un terzo atto esemplare, con il racconto della lama e il do di sicurezza e squillo impressionanti. Per lei, comunque, alla fine ovazioni clamorose.
Avevamo già più volte sentito il Cavaradossi di Giorgio Berrugi: e qui il tenore pisano ha confermato un suo canto tecnicamente impeccabile (quasi suonasse ancora il clarinetto dei suoi esordi da strumentista), acuti sicuri e penetranti, un’accentazione sobria ed elegante, ma non una personalità vocale e teatrale tale da galvanizzare né il palcoscenico, né la platea. Un poco ci ha delusi Claudio Sgura, pur uno dei maggiori Scarpia d’oggi. Certo, la sua entrata in S. Andrea della Valle – altissimo, nero, gelido – aveva qualcosa di inquietante e diabolico, alla Vincent Price se non alla Christopher Lee. Non è negabile tuttavia, che il timbro sia apparso nel Primo Atto meno pregevole d’un tempo, anzi rauco e affaticato (un raffreddore?) e che quindi la duttilità e gli accenti fossero non pari al consueto. Nel Secondo Atto l’organizzazione vocale di Sgura è sembrata in netta ripresa e il suo Scarpia beffardo, affilato, signorile è emerso quasi intatto. Tuttavia abbiamo pensato fin dai suoi esordi, che egli fosse un baritono chiamato al repertorio romantico, a Bellini e Donizetti, a qualche Verdi (chi non ricorda il suo Ezio o il suo Foscari?) ai francesi, ma non oltre. Le vicende della carriera e le qualità ottime l’hanno voluto in cimenti diversi e più onerosi: ma, successo a parte, potrebbe non essere stato un bene. Molto decorose le altre parti, tra cui il Sagrestano finalmente senza gags di Domenico Colaianni e la brava Carola Finotti come Pastorello. Pier Giorgio Morandi è direttore provato, scorrevole, attento soprattutto a far cantare l’orchestra, più che a scuoterla di drammi e passioni. Forse avrebbe potuto con più decisione intervenire sui cantanti, onde dar fuoco ad uno o stiepidire l’altra, ma la conduzione generale era di grande professionalità. Successo non solo per la protagonista, beninteso.
Maurizio Modugno