DONIZETTI Alfredo il Grande A. Siragusa, G. Fiume, L. F. Ravizza, A. Corrado, V. Girardello, F. Cicìo, A. Gares, A. Agudelo; Coro della Radio Ungherese, Orchestra Donizetti Opera, direttore Corrado Rovaris regia Stefano Simone Pintor scene Gregorio Zurla costumi Giada Masi
DONIZETTI Il diluvio universale N. Di Pierro, N. Donini, D. Zaccherini, E. Martínez, S. Gárdez, E. Artina, S. Burns, E. Scala, G. Gianfaldoni, M. E. Pepi, W. Wang; Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala, Orchestra Donizetti Opera, direttore Riccardo Frizza regia e costumi MASBEDO scene 2050+
DONIZETTI Lucie de Lammermoor V. Priante, P. Kabongo, J. Henric, D. Astorga, R. Lorenzi, C. Sala; Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala, Orchestra Gli Originali, direttore Pierre Dumoussaud regia Jacopo Spirei scene Mauro Tinti costumi Agnese Rabatti
Bergamo, Teatro Donizetti e Teatro Sociale, 24-25-26 novembre 2023
Nella seconda metà di novembre, attorno al fatidico Dies natalis, Bergamo diventa meta di una quantità di melomani ‒ donizettiani in prima fila, ma in genere appassionati di belcanto e di rarità operistiche ‒ che vi accorrono per assistere agli spettacoli del festival «Donizetti Opera». Una rassegna che da tempo si distingue per la cura filologica e musicale posta nella rivisitazione e nella riscoperta del catalogo del grande bergamasco, affrontate con la serietà di un importante progetto culturale; anche se, va detto, in questa edizione gli spettacoli hanno sollevato, sotto alcuni punti di vista, qualche perplessità in più rispetto al recente passato.
Lucie de Lammermoor
Il Teatro Sociale di Città Alta e l’orchestra Gli Originali, normalmente riservati al titolo più giovanile in cartellone, quest’anno sono stati destinati a Lucie de Lammermoor, versione francese del celebre capolavoro (troppo diversa per essere una semplice traduzione, ma troppo simile per essere davvero considerata un’opera a sé stante) che Donizetti approntò nel 1839 per il parigino Théâtre de la Renaissance, dove non si volevano né opéra-comique con dialoghi parlati né convenzionali grand-opéra, bensì opere di impianto italiano adattate alla lingua e al gusto d’Oltralpe (e qui colgo l’occasione per osservare che, se un’opera è cantata in francese, piacerebbe leggere, accanto ai soprattitoli in italiano, quelli in lingua originale, anziché la traduzione inglese).
La scelta di riservare a Lucie l’esecuzione “storicamente informata” è risultata interessante ma non priva di criticità. Se, infatti, da un lato, aiuta l’ascoltatore a porsi di fronte alla partitura con orecchie nuove, libere dagli echi della tradizione esecutiva, dall’altro lato permangono le note difficoltà nella messa a fuoco del suono, in particolare degli strumenti a fiato, che rischiano di opacizzare troppo alcune atmosfere. Senza contare che la minore brillantezza sonora dovrebbe trovare un contrappeso in una bacchetta ispirata che infonda vigore e sprigioni colori con una gestione sagace di agogica e dinamiche, e questo elemento è mancato. Pierre Dumoussaud ha condotto in porto la recita stancamente, senza un guizzo di originalità o di brio, corretto forse sì, ma piatto. Questa monocromia, al di là di quanto di buono hanno fatto i singoli interpreti, ha gravato su tutta la rappresentazione. Quando si ascolta un’opera la cui musica in buona misura già si conosce (sia pure in una versione diversa) ci si aspetta di più di una semplice esecuzione corretta.
Coerentemente con la scelta della compagine orchestrale, i protagonisti maschili sono stati individuati tra solisti a vocazione rossiniana. Il tenore Patrick Kabongo (Edgard) compensa un timbro non troppo ammaliante con una gestione ammirevole dei colori, soprattutto in quei momenti di nostalgia e rassegnazione in cui la sua voce si veste di una malinconia trasognata, quasi che il dramma fosse, più che vissuto, rievocato da memorie lontane. Segnatamente ben riusciti sono stati il finale del I atto (in duetto con Lucia) e la grande aria conclusiva. Tuttavia, il volume è troppo ridotto e lo squillo troppo poco sonoro perché un personaggio che è emblema del Donizetti romantico possa emergere a tutto tondo, pur in presenza di un’esecuzione con strumenti d’epoca; e infatti, nel finale II, tendeva a scomparire. Il baritono Vito Priante affronta il ruolo di Henri con rigore e nobiltà, non senza un fraseggio perspicuo, e tuttavia sembra mancare qualche pennellata perché ne emerga la cattiveria. Il basso Roberto Lorenzi, con la sua voce imponente e timbrata, si è fatto notare nel ruolo di Raimond, che nella versione francese è di fatto ridotto a parte di fianco. Sono viceversa rimpolpati i ruoli di Arthur e di Gilbert (erede di Normanno). Al primo, che compare già nell’atto iniziale, il tenore Julien Henric presta una voce chiara di bello squillo. Il secondo è perfettamente delineato da Donizetti e reso dal tenore David Astorga come un personaggio viscido che provoca la tragedia per un bieco tornaconto economico. Unica donna tra tanti uomini è Lucie, interpretata dal soprano Caterina Sala, la quale forse risentiva, specie all’inizio dell’opera, dell’indisposizione che le aveva impedito di portare a termine la prima recita. La cavatina «Que n’avons-nous des ailes?» (traduzione dell’aria «Perché non ho del vento» di Rosmonda d’Inghilterra) risulta un po’ smorta, la coloratura non perfettamente sgranata, e nel duetto con Henri alcuni passaggi sono perigliosi. È nella scena della follia che ‒ quasi che il personaggio avesse ritrovato la propria anima ‒ si è ritrovata la giovane promettente, dalla notevole stoffa vocale e dallo spiccato talento interpretativo, che si era conosciuta in precedenti occasioni: le agilità sono belle, i vocalizzi pesati, gli accenti incisivi. Resta un vibrato un po’ insistente, funzionale, forse, insieme a qualche eccesso sul finale, ad esprimere l’alienazione mentale della protagonista.
Jacopo Spirei ambienta la vicenda in un’epoca genericamente moderna: sullo sfondo di una foresta uggiosa, sprazzi di colore dalla valenza simbolica illuminano a tratti il primo piano, per spegnersi in un finale quasi in bianco e nero. Il Leitmotiv che guida la lettura registica è il tema della violenza contro le donne, messo in chiaro sin dall’apertura del sipario, quando i cacciatori sono intenti a umiliare un gruppo di ragazze, che si ritroveranno cadaveri nella scena finale, accanto alla carcassa di un’auto, insieme alla quale saranno bruciate per cancellare ogni traccia delle violenze perpetrate. E la rappresentazione della problematica è efficace, se qualche signora particolarmente sensibile al tema ‒ e vittima di quel fraintendimento che porta a confondere la finzione teatrale con la realtà ‒ al termine della prima scena grida all’indirizzo del palcoscenico: «più rispetto per le donne! Vergogna!». Per il resto, la drammaturgia è nelle sue linee essenziali rispettata, eccezion fatta per l’empatia degli astanti nei confronti di Edgardo morente, che nella rappresentazione risulta totalmente assente.
Il diluvio universale
Nei lunghi annunci che precedono l’inizio delle recite, è citato l’«Italian Climate Network», associato a un’esortazione perché il cambiamento climatico diventi centrale nel dibattito pubblico. Ora, indipendentemente da ciò che si pensi sul tema, una cosa è certa: perché il cambiamento climatico diventi centrale nel dibattito pubblico non bisogna fare allestimenti come quello del Diluvio universale, dopo il quale per queste tematiche si rischia solo di provare un’antipatia viscerale. Il duo registico MASBEDO (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni), con alcuni collaboratori, per quella che è la sua quarta regia operistica vuole istituire un parallelismo tra la vicenda dell’umanità dei tempi di Noè, sorda a ogni richiamo alla conversione, e l’umanità di oggi, intenta a consumi sfrenati senza prestare ascolto ai segnali di stress che vengono dal pianeta. L’idea di fondo poteva essere sensata, ma la sua realizzazione scenica ha lasciato interdetti. La drammaturgia si perde completamente a causa di un certo horror vacui che spinge a riempire la scena di presenze ed elementi non richiesti, e soprattutto per le continue e ossessive videoproiezioni (alcune in presa diretta) che riversano, senza una narrazione logica intelligibile, immagini di disastri naturali alternate alle scene del banchetto “non politicamente corretto” (cioè carnivoro e sprecone) di Cadmo e dei suoi seguaci. Quando si assiste allo sbudellamento degli animali (anche se un residuo di buon gusto ha fatto sostituire le interiora con gelatine, e le carcasse sono verosimilmente finte) si tocca il limite del ripugnante. Individuare un punto di fuoco diventa impossibile, se non in rari momenti. E l’unica cosa che dalle videoproiezioni ci si potrebbe aspettare, cioè una realizzazione spettacolare del diluvio conclusivo, non c’è, sostituita dall’apparire di una tela di Francesco Coghetti attualmente esposta all’Accademia Carrara. Alla prima, a quanto risulta, i registi sono stati duramente contestati. Alla replica cui ho assistito, pur presenti in sala, non sono andati alla ribalta, ma, nelle pause prima dell’inizio del II e del III atto, le proteste del pubblico si sono fatte sentire, con dei divertenti botta e risposta tra i palchi. Insomma, un risveglio delle coscienze c’è stato, anche se in una direzione diversa da quella che si sarebbe voluta.
Alle perplessità sul lato visivo, ha fatto da contraltare un’esecuzione musicale di ottimo livello. La partitura, nell’edizione critica di Edoardo Cavalli, è stata ripresa, per la prima volta in tempi moderni, nella versione originale scritta nel 1830 per il San Carlo (le precedenti riprese si erano basate sulla versione genovese del 1834). In questa forma Il diluvio ‒ che si inserisce nella tradizione delle opere quaresimali, sulla scia del Mosè in Egitto di Rossini ‒ risulta ancora più teso, scarno ed essenziale. Questa cifra è perfettamente colta dalla direzione di Riccardo Frizza, che asseconda la mano donizettiana definendo la partitura come un arco teleologicamente indirizzato alla catastrofe finale, nel quale anche i momenti di espansione lirica non cedono a tentazioni edonistiche, ma sono strettamente funzionali alla definizione e allo sviluppo dei caratteri: non è un caso che in quest’opera, più che altrove, Donizetti ripensi le forme tradizionali del melodramma in funzione di una forte aderenza alla drammaturgia. Frizza non si concede una sbavatura, non un cedimento di tensione, ben assecondato dall’Orchestra Donizetti Opera (condivisa con Alfredo il Grande) e dall’ottimo Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala (condiviso con Lucie de Lammermoor), che si è messo in luce per l’abilità nel definire con perspicuità il carattere dei suoi vari interventi: solenne e cospiratorio quando si aggira alla ricerca di Noè, sfacciatamente sfrenato all’inizio del III atto, terrorizzato nel finale. Giova ricordare che, nella versione 1830, non esistendo i “seguaci di Noè”, il coro è composto solo di “cattivi”, e si presenta con le logiche di un vero personaggio.
Dal punto di vista vocale, tre sono i protagonisti. Noè, il profeta inascoltato, pur essendo privo di un’aria tradizionale ha modo di dispiegare la propria vocalità con i linguaggi della preghiera, dell’invettiva e della profezia visionaria. Il basso Nahuel di Pierro, nel ruolo che fu scritto per Lablache, sa valorizzare con fraseggio appropriato una figura che forse necessiterebbe di una maggiore imponenza vocale per essere restituita nella sua ieraticità; particolarmente profonda e sentita è la preghiera «Dio tremendo, onnipossente», mentre finiscono per essere penalizzati gli interventi negli ensemble. A Noè si contrappone Cadmo, capo dei satrapi gaudenti, tenore antagonista di matrice rossiniana, cui Enea Scala presta voce svettante e precisa, curata negli accenti e nelle dinamiche, con una varietà cromatica crescente nel corso della recita. Nel finale I, finisce per imporsi sulla figura del profeta, grazie alla maggiore prestanza vocale e al timbro accattivante. Tra i due si staglia Sela, moglie di Cadmo che crede alle parole di Noè, ma alla fine rinuncia alla salvezza per amore del malvagio marito. Il soprano Giuliana Gianfaldoni affronta il ruolo con uno strumento minuto ma sempre espressivo e pesato, col quale manifesta reale partecipazione emotiva nella costruzione di una figura ispirata e tormentata: il suo duetto con Cadmo si veste di sofferenza e apprensione, che si contrappongono alla cattiveria, espressa con rabbia e scherno, del marito, e l’aria conclusiva, siglata con un filato molto delicato, è la voce di una donna stremata dai turbini emotivi. A Sela si contrappone la perfida Ada, sua amica ma in realtà rivale e traditrice, interpretata dal promettente mezzosoprano Maria Elena Pepi, allieva della Bottega Donizetti, che sa mettere a fuoco in maniera molto convincente un ruolo che si esprime solo nel recitativo. E va riconosciuto il giusto merito anche ai solisti che incarnano i figli e le nuore di Noè (con particolare menzione per il basso Nicolò Donini e il tenore Davide Zaccherini), che si sono messi in luce nell’ensemble iniziale e nella preghiera del II atto.
Alfredo il Grande
La produzione nel complesso più equilibrata del festival è stata probabilmente il “Donizetti200”, Alfredo il Grande (1823), titolo con cui il compositore debuttò al San Carlo, ripreso per la prima volta a duecento anni dalla prima assoluta. Si tratta di un melodramma eroico (ispirato a un episodio della storia inglese) debitore allo stile rossiniano, nel quale le esigenze della vocalità sovrastano quelle della drammaturgia, che, specie nel II atto, è piuttosto statica. Lo spettacolo di Stefano Simone Pintor non si propone di ovviare a questa staticità, ma in un certo senso la sposa, dando vita a un allestimento ibrido che contempla componenti oratoriali, sceniche e semisceniche. Il Coro della Radio Ungherese rimane fermo in smoking al centro della scena e canta leggendo lo spartito, sulla cui copertina è dipinta la bandiera inglese o danese, a seconda della nazionalità del gruppo umano interpretato (nel finale I, quando sono presenti sia gli inglesi sia i danesi, questo stratagemma consente di mettere in luce la superiorità numerica dei primi). I personaggi indossano elementi di costume sopra gli abiti da sera, come se fossero figure di oggi che si immergono nella storia del passato in un processo di tipo metateatrale (poco opportuna è parsa la presenza di alcuni costumi moderni accanto a quelli storici, poiché genera un eccesso di stratificazioni che disorientano); e al legame tra la storia di differenti epoche e il nostro presente alludono le videoproiezioni ‒ alcune molto suggestive, altre un po’ fuori luogo ‒ che scorrono sullo sfondo. Conformemente alla realizzazione ibrida scelta e alla drammaturgia esile, la regia finisce per essere frammentaria, ma ben realizzata in alcune scene.
L’interesse dello spettacolo risiede principalmente nell’interpretazione musicale, che è stata curata sotto ogni aspetto. Significativa e vinta da tutti i punti di vista è la prova di Antonino Siragusa nel ruolo protagonistico scritto per Andrea Nozzari. L’accostamento del tenore contraltino alla scrittura da baritenore non ne ha minimamente penalizzato il registro acuto, svettante e sicuro, che è parso anzi perfezionato dal punto di vista tecnico e timbrico, e ha rivelato un registro centrale corposo e cromaticamente ricco. Una voce al contempo agile e robusta che si esprime con un canto di coloratura dal sapore profondamente virile e un cantabile disteso e sostenuto, e rende al meglio la statura eroico-belcantistica di Alfredo. Il soprano Gilda Fiume tratteggia la regina Amalia come una donna volitiva e determinata, stilisticamente protesa verso il romanticismo, che condivide con il marito, cui è legata da un vero patto coniugale di natura sia sentimentale che politica, l’eroismo e la fierezza. Il basso Adolfo Corrado è dotato di uno strumento ampio e timbrato con cui interpreta con efficacia l’antagonista Atkins; e anche il fraseggio rimasto un po’ abbozzato non è estraneo alla personalità del generale danese. Enrichetta, protagonista dell’aria “di sorbetto”, nelle corde del mezzosoprano Valeria Girardello riesce delicata nel cantabile ma avrebbe necessità di più brio per vivificare la cabaletta. Da riascoltare in ruoli più rilevanti il baritono Ludovico Filippo Ravizza (Eduardo), l’accattivante soprano Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti (Margherita), e il tenore Antonio Gares, di bel timbro e proiezione (Guglielmo). Tout se tient anche per merito della bacchetta di Corrado Rovaris, il quale, manifestando la propria sensibilità ed esperienza in questo repertorio, estrae dagli strumenti un suono che, pur non rinunciando alla duttilità e alla brillantezza dell’orchestra moderna, ha una patina che rievoca i colori delle esecuzioni “storicamente informate”. Ma, soprattutto, il direttore mostra sensibilità nelle scelte agogiche e dinamiche che identificano il carattere di ogni numero musicale: ne è esempio il terzetto del I atto, percorso da una tensione eroica che non cede né a languori né a frenesie superficiali.
Quasi come complemento del festival, molti ascoltatori provenienti da fuori Bergamo hanno visitato la mostra «Tutta in voi la luce mia. Pittura di storia e di melodramma», allestita presso l’Accademia Carrara. La concomitanza rappresenta un bell’esempio di sinergia tra le istituzioni culturali cittadine che ha permesso di apprezzare come, all’epoca di Donizetti, le arti procedessero affiancate e spesso si intrecciassero esprimendosi sugli stessi soggetti e divenendo l’una ispirazione dell’altra. Tra tele storiche di Hayez, ritratti di compositori e di cantanti in abiti di scena, una sala sul tema del Diluvio Universale e qualche didascalia che avrebbe meritato di essere ricontrollata da uno storico della musica, l’immersione nell’arte del primo Ottocento italiano è assicurata anche tra una rappresentazione operistica e l’altra.
Marco Leo
Foto: Gianfranco Rota