VERDI Macbeth L. Salsi, A. Netrebko, I. Abdrazakov, F. Meli, I. Ayón Rivas, C. Isotton, A. Pellegrini; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Davide Livermore scene Giò Forma costumi Gianluca Falaschi
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2021
È tornata la “prima”: le polemiche della vigilia, le recensioni preventive, le code dei loggionisti, lo sfarzo delle toilettes, lo struscio dei soliti noti, e – anch’essa quasi una tradizione – l’ovazione a Mattarella, durata ben più dell’esecuzione dell’Inno stesso. Una normalità meneghina e italiana che avevamo desiderato intensamente e amaramente l’anno scorso (“nessun maggior dolore…”), e che ora sembra rappresentare davvero un simbolo di definitiva ripartenza e (mascherine a parte) ritrovata normalità. Fra i riti rispolverati per questo Sant’Ambrogio, anche quello dei fischi al regista: che era Davide Livermore, alla quarta inaugurazione consecutiva, un’esagerazione sotto ogni punto di vista. E che ha proposto lo spettacolo che ci si poteva immaginare, perché perfettamente in linea con i precedenti: in sintesi, un teatro che dice cose piuttosto banali con mezzi apparentemente innovativi, ma che rimane quasi sempre alla superficie della drammaturgia dell’opera allestita, non volendo (o non potendo) entrare in profondità con un vero Konzept registico. Come scritto da molti, e dichiarato da Livermore stesso, siamo in una contemporaneità distopica, una megalopoli devastata da conflitti sociali, inquinamento, alienazione e dominata da gruppi di potere para-mafioso: il tutto dipinto con un’estetica nazi-kitsch che, più che Inception, a me ha ricordato moltissimo Metropolis di Fritz Lang, anche in quell’alienante, formicolante camminare di masse oppresse del primo atto. In quelle masse vi sono le streghe, che giustamente (e verdianamente) non sono un elemento fantastico, ma la rappresentazione delle pulsioni umane più inconfessabili: le streghe sono tra noi, le streghe siamo noi, proprio come i sicari sono gli stessi ospiti della “cricca” di Macbeth e Lady, sono quei membri di un qualche consiglio di amministrazione che ha fatto sì che Duncano venisse eliminato, e che non esiterà ad appoggiare, poi, il nuovo sovrano Malcolm: che, insieme ad un Macduff più ambiguo e opportunista che mai, conquista gli “esuli scozzesi” con un discorso populista tenuto da un palco improvvisato (ma neppure troppo: ci sono i microfoni, il leggio…). Ecco, se dovessi sintetizzare l’idea che sta alla base del Macbeth di Livermore è questa: una sorta di eterno ritorno dell’uguale, in un mondo efferato e selvaggio, in cui non c’è via di scampo al circolo delle violenze e del sangue, in cui nessuno è davvero migliore dell’altro. Il problema è che una vera regia manca: la recitazione è convenzionale, l’uso sovrabbondante di enormi ledwall (che ormai sono le nuove scene dipinte) probabilmente molto efficace in televisione ma non sempre in teatro (rendere un’automobile in movimento con lo scorrere del fondale “fa” subito anni ’50!) e irrisolto rimane il rapporto tra i personaggi. Si suggerisce, ad esempio, una relazione ancora eroticamente vivace tra Macbeth e Lady, al contrario di quanto Shakespeare e Verdi indicano: benissimo, ma che cosa vuole dire praticamente? E come si declina a livello drammaturgico? Non si sa. E molte scene chiave sono ugualmente sprecate: il sonnambulismo, tutto agito su un ballatoio ma senza un’idea che fosse una, o anche il lungo ballabile, giustamente inteso come una pantomima (con tanto di assimilazione tra l’Ecate del libretto e Lady Macbeth, con una Netrebko scatenata anche come ballerina), ma davvero in modo superficiale. Insomma, un teatro fintamente moderno, che è riuscito a scontentare sia i passatisti (che si sono fermati al modo apparentemente iconoclasta che Livermore ha di “dire” la narrazione) sia chi cerca un teatro veramente relazionato al giorno d’oggi: e che non passa per forza dalle videoproiezioni.
Ben altrimenti meditata, e matura mi è parsa la parte musicale, guidata da un Riccardo Chailly che è certamente partito dalla lezione abbadiana fatta di sonorità omogenee, trapassi improvvisi di colori e atmosfere, ma con in più una cura estrema del dettaglio strumentale, mai per il puro gusto dell’evidenziazione, ma per sottolinearne l’esigenza, la necessità teatrale. Posso citare in tal senso la ripresa del brindisi, esitante e sussurrata, in perfetto dialogo col canto sempre più franto e angosciato della Lady; o la varietà ritmica impressa alle danze. E Chailly, insieme al nuovo Maestro del Coro Alberto Malazzi, non ha avuto paura di chiedere ai complessi scaligeri (eccezionali, va detto) sonorità grezze, ruvide, perfino fastidiose: i cori delle streghe, certo, ma anche i particolari della grande scena delle evocazioni nel terzo atto. E i concertati avevano un perfetto mix di pudore espressivo e quella retorica che è ingrediente indispensabile del teatro verdiano: se qualcosa dovessi rimproverare a Chailly, è una certa esitazione ad abbandonarsi alle parti più unheimlich, più perturbanti di questa musica, a scatenare quella violenza sonora che è riflesso di un disfacimento morale. Ma certamente il Maestro milanese ha cercato la diversità nell’equilibrio apparente: e nelle repliche, ci scommetto, tutto sarà più rifinito.
Il cast schierato dalla Scala era, sulla carta, il migliore oggi proponibile: e le conferme sono state quasi totali. Nel “quasi” inserisco la prova di Anna Netrebko, fatta oggetto di qualche sparuto e ridicolo “buh”: ridicolo perché siamo sempre di fronte ad un’artista che vanta volume vocale, esattezza di canto (anche nei trilli e nelle agilità del brindisi) e carisma oggi non comparabile ad alcuna collega (o quasi). Certo, l’aria d’entrata scontava qualche prudenza eccessiva, presto svanita in un secondo atto di altissimo livello: il vero problema della Netrebko è che una parte del genere non le consente di sfoggiare le ampie arcate legate, la luminosità timbrica che oggi nessuna può vantare e, al contrario, la mette alla frusta esigendo una diabolica varietà di fraseggio che non è mai stato il forte della diva russa. Una Lady abbastanza monodimensionale, che soffre ogni tanto di lievi problemi di intonazione, ma che conclude con un sonnambulismo di altissima scuola (re bemolle in pianissimo incluso): anche per lei, sono sicuro che con lo stress della prima svaniranno anche tanti piccoli problemi ieri avvertiti. Ma metterne in dubbio la grandezza assoluta è davvero insensato.
Luca Salsi, viceversa, ha fornito la prova che mi aspettavo da lui: con la sua voce autenticamente, verdianamente baritonale ha retto l’ampia tessitura con uniformità, squillo, bellissimo colore, senza mai dare cenni di nervosismo o fatica. E poi – cosa ancora più importante – ha aderito con scrupolo e autentica grandezza artistica alle mille indicazioni verdiani in termini di fraseggio, suono, colore: il monologo del pugnale, certo, ma anche la grande aria finale e persino quel “Mal per me” inserito a forza nel finale della versione 1865 (e, va detto, non mi è parsa una buona idea). Dopo Cappuccilli e Bruson, la Scala ha trovato un terzo grandissimo baritono degno di aprire la sua stagione nei panni dell’eroe shakesperiano: e tanto basti.
Un grande teatro si vede anche dalle parti di fianco: e qui davvero c’è poco da dire. Francesco Meli è (chi ha già letto il numero di dicembre/gennaio di MUSICA lo vedrà ribadito) artista che stimo in maniera profonda, e la sua grandezza ha brillato anche in una piccola parte come quella di Macduff: l’aria, certo, era un paradigma di canto legato e di nobiltà espressiva, ma lo spessore dell’artista si vede anche da come sa accentare e sostenere il triplice grido di “Orrore” alla fine del primo atto. Discorso simile va fatto per Ildar Abdrazakov, un Banco che coniuga velluto e potenza vocale e per il tris di artisti che “arriva” dal concorso Clip: Ivan Ayón Rivas, un Malcolm extralusso, Chiara Isotton, una Dama che è già una Lady in potenza, e Andrea Pellegrini, intenso Medico.
Grande successo, con una selva di fischi per Davide Livermore e il suo team: forse, per il prossimo sette dicembre, è il caso di cambiare cavallo… Ma il senso morale e artistico di questa serata andava ben oltre, ed è una scommessa che hanno vinto non solo Meyer, non solo Chailly, non solo la Scala: in qualche modo, l’abbiamo vinta tutti noi.
Nicola Cattò
Crediti: Brescia e Amisano © Teatro alla Scala