VERDI La traviata R. Iniesta, M. Ciaponi, A. Veccia, R. Hara, E. Verzier, A. Binetti, G. Palumbo, H. Leka, D. Velenich, D. Locatelli, G. Pelizon; Orchestra, coro e tecnici della Fondazione Teatro Lirico G. Verdi, direttore Michelangelo Mazza regia Mariano Bauduin
Trieste, Teatro G. Verdi, 25 giugno 2021
Accadde una notte. Tutto in una notte: il ritorno alla quasi normalità di uno spettacolo sul palcoscenico con pubblico in sala sia pur a ranghi ridotti, la ripresa dell’attività operistica del Verdi (mancava a completare lo scenario delle fondazioni nazionali), il recupero di Traviata che sa di inaugurazione fuori stagione con tanto di inno nazionale, il successo annunciato, infine la notizia che il sovrintendente Stefano Pace lascia Trieste per l’Opéra Royal de Wallonie. Essendo tradizione dei gala d’apertura al Verdi che una copia de “Il Piccolo” venga offerta in omaggio a fine spettacolo all’uscita da teatro, i lettori l’hanno appresa in nottata. Dico in nottata perché, onde consentire il simpatico omaggio fresco di stampa del quotidiano locale con la cronaca precotta della prima, si è provveduto ad allungare la serata, dividendo l’opera in quattro atti con tre intervalli per una durata parsifaliana, nonostante alcune sostanziose sforbiciate sempre di prassi antica. Così il pubblico è tornato a rivedere le stelle un poco provato da quattro ore di mascherina, ma visibilmente soddisfatto. La soddisfazione per il proprio teatro ritrovato compensava largamente le condizioni imposte dall’emergenza (l’assetto nuovo della buca e della sala, i distanziamenti in scena e loro effetti fonici collaterali). Ed era del tutto confortante la cura musicale con la quale è stata riproposta l’ennesima Traviata: titolo che — dovesse un domani prendersi un anno sabbatico per sovraesposizione nei cartelloni — sarebbe forse il segnale che l’emergenza è davvero finita. L’opera “popolare” par excellence è comunque, in questo contesto, infallibile, specie quando servita da una concertazione scrupolosa e riflessiva, che rifugge dalle iperboli e seconda con delicatezza la continuità lirica della partitura, l’evolversi rapido del dramma e della “commedia umana”: una direzione, quella di Michelangelo Mazza, che ottiene il risultato migliore non dall’empito aggiunto, ma dalla misura nella felice corrispondenza dell’orchestra e del palcoscenico. Forse per qualche scollatura dovuta anche alla distanza in scena del coro e nonostante la prova autorevole della protagonista, si può dire che questa Traviata cominci e decolli dal secondo atto in coincidenza con l’entrata di papà Germont. Merito non marginale del baritono Angelo Veccia: non il “malcauto vegliardo” arcigno di magniloquente spietatezza, ma un decoroso, saggio borghese “umano” nel suo rigore morale e quasi comprensivo nel confronto con Violetta e nella successiva irruzione alla festa. E con tale saggezza il baritono — sacrificata, credo senza rimpianti, la cabaletta al “taglio” scelto dallo spettacolo — sostiene la linea nobile del canto sulla parola. Ruth Iniesta e Marco Ciaponi sono la coppia giovane di grandi risorse vocali. Pur con una certa genericità di ruolo, il tenore sfoggia ricchezza di smalto e di squillo. La Iniesta è soprano di straordinaria versatilità e sicurezza nel controllo del suono e nel trapasso della vocalità plurima di Violetta, dalla brillantezza al pathos ombrato del crepuscolo. Con esiti che, per lei, per il tenore e per tutti gli altri sarebbero stati ulteriormente esaltati da una messinscena originale ed emozionante. Nell’emergenza però si è preferito adattare i resti di una precedente produzione (l’allestimento in questa occasione è infatti anonimo) e ripiegare su un decoroso trovarobato da riempire all’uopo. Mariano Bauduin firma una regia illustrativa di convenzione, che non azzarda una lettura interpretativa al di là di frammentarie allusioni al “maledettismo” baudelairiano. Con il coro schierato quasi frontalmente sullo sfondo buono il resto del cast con la giovane Elisa Verzier (Annina) e Andrea Binetti (il Barone) in particolare evidenza. Tutti partecipi del successo alla festa finale del ritrovato teatro triestino.
Gianni Gori
Viva “il” Verdi
Soprano Anna Pirozzi tenore Fabio Sartori baritono Ambrogio Maestri Orchestra e coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, direttore Jordi Bernàcer
Trieste, Teatro G. Verdi, 8 agosto 2021
Sotto la sigla Viva “il” Verdi, che è insieme augurio ed appello (e il caso vuole che proprio adesso ricorrano i 220 anni del glorioso teatro triestino), il Verdi si congeda per le ferie estive e dà fiducioso appuntamento alla stagione autunnale, collaudando le regole del green-pass. E se le procedure d’accesso possono aver influito sull’affluenza, laddove in altri momenti un’offerta artistica come questa sarebbe stata presa d’assalto, lo squillo e l’esito della serata sono stati euforizzanti. Un vero e proprio squillo di teatro d’opera vecchia maniera, di mobilitazione entusiastica, come a rinnovare i fasti dei famosi concertoni Martini & Rossi. Premesso che il programma era ben impaginato, con il concorso del coro della Fondazione, va subito detto della determinante incisività di stile e di dialettica interna assicurata sul podio da Jordi Bernàcer: una direzione che esaltava il respiro ed il senso lirico e la dinamica drammatica di ogni pagina fino dalla Sinfonia della Luisa Miller in apertura, a confermare l’eccellente serata dell’orchestra. Una riflessione a margine, prima e dopo le entusiastiche accoglienze del pubblico: vista l’aria che tira incline al ristretto recinto popolare di produzione specie per un teatro come questo (che pure è storicamente uno dei più verdiani del mondo), non è escluso che titoli come I lombardi alla prima crociata o I masnadieri (di cui è stato eseguito il preludio con meritato trionfo per il primo violoncello… come dire il quarto bravissimo “cantante” della compagnia) che titoli come questi siano destinati a restare titoli e basta, essendo qui improbabile in futuro piena realizzazione sulle scene. Per cui ne resterà memoria solo per estratti, in grado di accendere nostalgie ed emozioni. Il che è avvenuto l’altra sera grazie alle tre sontuose voci dilaganti nel teatro triestino. E non solo per il volume e la quantità “areniana” dei tre artisti, ma anche e soprattutto per la qualità ed il fraseggio. Al punto di suscitare l’impressione che persino pagine più familiari – Trovatore, per esempio (e il Terzetto ha scatenato delirio collettivo da standing ovation — “suonassero” con uno spessore maestoso e fiammeggiante cui siamo scarsamente abituati. L’impressione che fossero per dirla cammaranamente “dal ciel discese”: vale per lo strumento splendido in morbidezza e laminata lucentezza di Anna Pirozzi (dalla ferrigna Odabella alla Elisabetta del Don Carlo), vale per la falstaffiana parola scenica di Ambrogio Maestri, che giganteggia quanto la sua statura scavando nel tormento di Macbeth e calandosi poi in uno Jago che più sinistro e cinico non si può. E vale infine per Fabio Sartori, che tornava nella città del suo quasi esordio nel 1996 (allora era Pinkerton) con una organizzazione vocale ancora più larga ed omogenea, con una maturità di tenore verdiano capace di infallibili inflessioni di timbro (“Io piango…”) prima del Lento “Cielo pietoso rendila”. La situazione con soprano, tenore e baritono era tale che alla fine qualcuno sperava gli venisse risparmiato il brindisi di Traviata. E invece, complice Maestri che si è inserito nel gioco, il bis è puntualmente partito. Pure lui, il bis, “diverso”, festosamente grandioso, benaugurante. Per mandare tutti a casa soddisfatti, a sperare che la festa continui.
Gianni Gori