PIOVANI Amorosa presenza M.R. Combattelli, M. Takei, A. Aisemberg, W. Hernandez, C. Saitta; Coro e Orchestra del Teatro Verdi di Trieste, direttore Nicola Piovani regia Chiara Muti scene e costumi Leila Fteita
Trieste, Teatro Verdi, 21 gennaio 2022
Sul fenomeno dell’“innamoramento” si può scrivere di tutto, dal trattato al poema. Si può scrivere un romanzo come quello di Javier Marías. E si può scrivere una fiaba, come quella che Nicola Piovani ha scelto per la propria opera (un’opera in piena regola, non un’operina) in collaborazione, per il libretto, con Aisha Cerami e in ricordo di Luigi Cerami, autore di un romanzo dallo stesso titolo (Amorosa presenza) edito nel lontano 1978. Questo per dire quanto a lungo Piovani abbia cullato questo progetto, portato a compimento in questi ultimi anni (proprio negli anni più grigi possono accendersi i sogni di giovinezza) su commissione del Teatro Verdi, dove è andato in scena come inaugurazione atipica della stagione lirica 2022. È raro che una fondazione lirica apra oggi con l’azzardo di un’opera (si può ancora dire?) “contemporanea” (addirittura di un autore fortunatamente in piena attività), specie in una fase disperatamente aggrappata al più ristretto repertorio di pronta chiama. In tempi lontani era stata per esempio eccentrica specialità del Comunale di Treviso. A Trieste per Amorosa presenza la risposta di un pubblico, che sembrava aver perduto abitudine e interesse per il concetto stesso di “novità”, è stata di autentico entusiasmo. Certo c’era la musica di Piovani, c’era la fama del premio Oscar alla sua prima esperienza operistica ad ampio respiro. Con un altro autore probabilmente non sarebbe stato lo stesso. È comunque un inizio incoraggiante. Un gran bel ballon d’essai. Che tipo di opera ci si poteva attendere da un Maestro della leggerezza e della “piccola forma” come Nicola Piovani? Una prima risposta è venuta dalla scelta della drammaturgia: non una vicenda di attualità socio-politica, ma la realtà dei sogni, la strada del sentimento, del sorriso d’innocenza che attraversa il sogno d’amore di una coppia. Esile trama di per sé, non fosse che il libretto ha qualità di lieve eleganza e Piovani le immette nella dialettica antica del teatro giocoso, nel classico meccanismo del travestimento, dello scambio dei ruoli e dei generi, che sdoppia e raddoppia i personaggi, un lui ed una lei giovanissimi con rispettivi tutore e tata, in una periferia dove ancora un lembo di natura scandisce il passare delle stagioni, irrora il palpito della vita ed entra nel gioco degli innamorati.
A questo plot il compositore ha offerto l’inventiva gioiosa o la stilla malinconica della piccola forma cantabile, coniugata al congegno tradizionale dell’opera con i suoi recitativi, arie, cavatine, duetti, assiemi. Ma nello stesso tempo distinta tanto dalla linea parodistica alla Nino Rota quanto dal minimalismo (pur con quell’insistito ma breve tratto ritmico d’incipit). Con il tacito consenso delle post-avanguardie storiche, Piovani è un Signor Novecento sbarcato nel Duemila. Nel proprio baule da viaggio ha riposto un enorme vissuto musicale al quale attinge tessere da ricomporre nel flusso della sua fantasia, in quella cifra stilistica suasiva, che subito galleggia qui in Amorosa presenza come nell’incantevole pagina di Canti di scena (ancora con Piovani): Volano le canzoni / sull’infelicità / cantano le illusioni / dei giorni senza età / di questa vita lieta, / lieta del suo tran tran. Spunta la luna / dietro le antenne / e sbianca la città. E pare la cellula figurativa di quest’opera.Vòlano con la morbidezza di romanze da salotto o con lo swing di Gershwin e Porter o con il gusto di certe canzoni anni trenta. Come, verso la fine del primo atto, la confessione della Tata che si direbbe un delizioso. originale aggiornamento di “Come pioveva”. Al suo puccinismo di fondo (ma spunta anche, al momento dell’appuntamento dei protagonisti un “ebben domani”, come eco di Alfredo in Traviata) l’esile e multiplo rapporto di Serena e Orazio si ravviva in dinamiche di sentimento e di azione e in una orchestra di grande ricchezza timbrica, non senza il guizzo dell’ironia e dell’affettuoso sberleffo. È però vero, come lo stesso Piovani sostiene in un suo fortunato programma radiofonico e concertistico, che “la canzone è pericolosa”. In questo caso solo per un effetto-ciliegie. Nel senso che una tira l’altra e nel raccordo con la fragilità della drammaturgia si rischia la prolissità almeno nella prima parte. Dove la gradevolezza della fiaba prevale sullo stupore. Ma quando nella seconda parte, ricorrendo a un topos romantico, Piovani fa scattare lo stupore (ed è il momento del bacio), scocca pure l’emozione che a passo di tango spazza via le farfalle nello stomaco dei due innamorati e conduce al lieto fine. Spettacolo di grande pulizia formale, quello firmato da Chiara Muti con l’allestimento di Leila Fteita e le luci e gli effetti suggestivi di Vincent Longuemare. Dal gusto illustrativo da libro di fiaba (con i suoi rimandi pittorici, le sue silhouettes magrittiane) al ritmo di opera giocosa, la regista muove con delicatezza, in souplesse l’intreccio dei sentimenti e il gioco dei “doppi” ben servito dall’azione coreografica di Miki Matsuse e da un cast calibrato nelle voci e nei caratteri, ancorché uno degli imprevisti in agguato abbia costretto a sostituire all’ultimo istante il tenore protagonista. Lo ha rimpiazzato onorevolmente il giapponese Motoharu Takei. Perfetta Maria Rita Combattelli (Serena), sia per la freschezza adolescenziale in scena, sia per musicalità e limpidezza vocale, con quel pizzico di esotismo messo nella piccola ballata della Principessa del Talài. Il mezzosoprano Aloisa Aisemberg canta ottimamente il ruolo della Tata accanto a William Hernandez (Tutore) e al basso Cristian Saitta (l’albero). Ma preziosissimo (in particolare alone di magia, essendo invisibile) è l’apporto del coro del Verdi preparato da Paolo Longo. Con un’orchestra equilibrata e stimolata nell’inedita avventura, Nicola Piovani ha diretto la propria opera in una serata apparsa subito molto festosa ed avviata ad un successo ad alta intensità.
Gianni Gori