BEETHOVEN Sinfonia n. 8 in fa magg. op. 93; Sinfonia n. 7 in la magg. op. 92 Sächsische Staatskapelle Dresden, direttore Christian Thielemann
Milano, Teatro alla Scala, 9 settembre 2022
L’Allegretto della Sinfonia in la maggiore di Beethoven rappresenta uno dei vertici di maggior enigma nell’ampia produzione del musicista di Bonn; come lo è, nondimeno, tutta la Sinfonia, sulla quale grava la celeberrima citazione wagneriana espunta da un discorso più ampio, e parimenti straniante, che dovrebbe portare l’ascoltatore a non limitarsi solo sul dato ritmico, ma ad elevarsi con lo sguardo di chi sorvola il mare della vita in un abbraccio totale, dal quale nulla si esclude, né la sofferenza più profonda né l’estrema felicità.
A questi due poli si affida l’interpretazione di Christian Thielemann, nella seconda serata scaligera dedicata alla Staatskapelle di Dresda della quale è ad oggi direttore principale. Sin dall’introduzione, “Poco sostenuto”, l’atmosfera di nebbioso dubbio si alterna alla ricerca di una solarità intravista e voluta per poi, sempre in punta di piedi, sfociare in un continuo crescendo verso quella luce della quale Beethoven è perenne ambasciatore. Nell’Allegretto si ripiomba in un soffocato timore, per nulla metronomico, bensì caldo, vivo e carico d’angoscia. Tra il terzo e il quarto movimento si disperdono sempre più le nebbie per correre verso l’affermazione di quel desiderio di superiore felicità tanto voluta.
Christian Thielemann schiera l’orchestra di Dresda con le file di archi al gran completo, dai quali ci si attenderebbe sonorità robuste e poco inclini alla rarefazione. Se il tutti orchestrale è di timbro e potenza esuberanti, le raffinatezze impalpabili di numerosi passaggi lasciano ancora più stupiti, come il legato vibrante dei violoncelli e la dolcezza delle viole, nonché la gamma di colori che legni ed ottoni riescono a raggiungere. Lo spettatore è, così, coinvolto in una esecuzione dove tutto concorre a far emergere la perfezione architettonica della sinfonia, il rigore ritmico e la snella articolazione delle parti in un costante fondersi senza nessuna apparente suddivisione.
Il direttore tedesco sollecita senza tregua gli orchestrali, chiedendo una spasmodica attenzione ai dialoghi interni tra le sezioni e alle sfumature che rendono ogni frase unica e pensata in vista della successiva, tutte inalienabili per il raggiungimento della complessità finale.
Comprensibile l’entusiasmo generato da una interpretazione così ricca e coinvolgente. Di poco superiore a quello ottenuto da Thielemann al termine della prima parte, con la Sinfonia in fa maggiore, il cui incipit è stato programmatico della serata: una esplosione di note luminose riunite da un legato degli archi così sfaccettato d’accenti da spingere il suono sempre avanti, senza sosta, mettendo in moto una macchina sonora dalla quale si rimane abbacinati. Anche in questo caso il secondo movimento, siderale nella sua perfezione senza tempo, lascia aperto il dubbio tra ironia giocosa e freddezza astratta, sulla quale Beethoven pare interrogarsi, per scatenare, nell’Allegro vivace finale, una rincorsa tutta giocata sui timbri delle sezioni e sul loro dialogare trascinati dal pulsare del suono verso la conclusione finale, agognata e liberatoria.
Numerose le richieste di bis, soddisfatte dall’Ouverture Coriolano di tragica potenza evocativa.
Dopo il trionfale concerto con l’Orchestra scaligera dello scorso anno, una nuova dimostrazione di affetto ed ammirazione per il direttore tedesco è così giunta con le due, eccellenti, serate d’inizio settembre.
Emanuele Amoroso
[La recensione della serata precedente, con la Quinta di Bruckner, sarà su MUSICA di ottobre]