VERDI Macbeth L. Salsi, V. Yeo, F. Meli, R. Zanellato, R. Rados, A. Carpenito; Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, direttore Riccardo Muti
Firenze, Teatro dell’Opera, 13 luglio 2018
Poco importa che la versione originale, e fiorentina, del 1847 di Macbeth sia rimasta fuori dalla porta, opportunamente sostituita dalla versione parigina che circa vent’anni dopo, nel 1865, fu definita da Francis Toye «interessante insuccesso». Del resto, privato di cambiamenti determinanti come quelli apportati all’aria della Lady del secondo atto e del quasi irriconoscibile terzo atto e del finale del quarto, Macbeth avrebbe certo finito per perdere quel carattere di «incongruenza e discontinuità» che Franco Abbiati, in una delle sue più lucide analisi su Verdi, seppe individuare.
Ed è proprio di questo Giuseppe Verdi che la produzione conclusiva del Festival del Maggio Musicale Fiorentino “Dialoghi ai confini della libertà” ha raccontato. Questo Giuseppe Verdi che già nella sua rielaborazione di Macbeth iniziava a scalpitare per dar forma, e testo e musica, alla rivoluzione dell’opera italiana che egli non percorse poi compiutamente fino agli altri due capitoli shakespeariani, Otello (1887) e Falstaff (1893).
A Firenze, nella magica notte del 13 luglio 2018, alla seconda delle esecuzioni di Macbeth in forma concerto, streghe e linchetti hanno lasciato il posto a una fascinazione incontrastata e ininterrotta fra il pubblico e le masse artistiche del Teatro del Maggio Fiorentino, gli straordinari solisti Luca Salsi, Vittoria Yeo, Riccardo Zanellato, Francesco Meli, e il conduttore, dialogico e partecipativo, Riccardo Muti, in una delle sue più empatiche e riuscite performance.
Quando una serata inizia con un primo atto, l’unico invariato nelle versioni, che immerge e affonda, tutti e totalmente, nel contesto musicale che si sta ascoltando. Quando non c’è intervallo o balletto (spero mi scusiate per la velata provocazione) che ne interrompa il pathos e ci son solo semplicità, sintesi e complicità a rinserrare gli animi delle duemila persone presenti, c’è poco da esercitare la funzione critica…
Dire che Muti ha esercitato la sua autorità con la disinvoltura di cui son buoni solo i grandi, sottolineare che a questo son corrisposte le migliori delle prestazioni ottenute dai singoli protagonisti nei loro periodi migliori, che il suono ha raggiunto momenti veramente sublimi senza mai perdere la coerenza narrativa che tale composizione conserva.
Pur priva degli elementi teatrali, la drammaturgia non s’è mai persa, la linea transcodificata da Verdi nel Macbeth s’è svolta nella correttezza del rapporto da lui connesso fra parola e testo, fra narrazione e taglio storiografico, fra l’elemento musicale e il suo significato semantico.
Muti non aggiunge allegorie, non interpreta il segno, non si esprime per didascalie.
Semplicemente illustra, espone, presenta la sua confidenza con Verdi e col suo testo musicale, così come sa fare. Ruba, dilata, sussurra e grida. Dà corpo e voce a una partitura che ama e che sembra dargli tutto l’indispensabile per un’espressione sincera, mai autoreferenziale. Forse lo aiuta, in questo, la mancanza dello spettacolo che lo induce a trovare scene e costumi nei dettagli del segno musicale, nelle pieghe di agogiche e dinamiche sempre controllate con la lievità, con la naturalezza che solo ai migliori riesce.
Il timbro orchestrale dell’Orchestra del Maggio è finalmente unico, riconoscibile, elegante come le linee sonore che descrive. Non siamo, sia chiaro, all’uniformità dei colori che contraddistinguono organici più quotati, non all’impercettibile unisono degli attacchi. Siamo però di fronte a un’uniformità d’intenti che rare volte capita di osservare nelle orchestre italiane. C’è una totale e consapevole adesione all’idea di Muti, un’immedesimazione, quasi. E così gli eco di morte provenienti dalla croma che conclude il “giro” turbinoso delle biscrome si colgono con facilità. I pizzicati assumono ritmiche e timbriche da prezioso cesello strumentale, le subitanee accensioni di ottoni e percussioni non mortificano mai il gusto e l’eleganza ricercata che la partitura verdiana possiede.
Non c’è retorica nel Macbeth di Muti. Non se ne trova traccia nell’esecuzione asciutta e misurata, nella finissima sensibilità che Orchestra e Coro sembrano possedere naturalmente.
I solisti, come accennato, tirano fuori il meglio di se stessi. Divertendosi e intrecciando con Muti un dialogo continuo. Il direttore li segue (alcuni fin da ragazzi, infatti) e li conforta. Gli sottolinea il plauso, li guida senza pausa. È commovente, perché cantano insieme, pur senza un gesto. Solo occhi negli occhi, e una grande fiducia. Ben riposta, perché Luca Salsi si dimostra stratega e visionario come Macbeth dev’essere, Riccardo Zanellato esprime il suo migliore timbro, la nobiltà nel canto e la maturità raggiunta. Il Macduff di Francesco Meli è convincente e instancabile pure nella zona alta, quella che impegna il tenore maggiormente. Nessuno si risparmia. Tutti cantano con decisione e impegno anche le parti coperte, quelle dove, se non si arriva, si trova il coro, coi suoi tanti talenti qui a Firenze. Il reparto maschile è completato da un giovanissimo e ben intenzionato Malcom di Riccardo Rados.
Lady merita anche lei un lusinghiero giudizio e un plauso all’impegno. Vittoria Yeo è quella che Verdi certamente avrebbe definito «voce troppo bella per il personaggio» e anche, probabilmente, più distante dalle caratteristiche di soprano drammatico d’agilità per la cui corda il Maestro Verdi scrisse la parte.
Invece la Yeo, a dispetto delle sue “difformità”, se l’è cavata benissimo. Intendiamoci, il suo personaggio è più lirico che drammatico, e forse sarebbe stato penalizzato da una recita in costume, ma la voce dotata di ampiezza espressiva, di caratteri timbrici piuttosto vari e preziosi, le ha permesso di esprimersi al meglio e di raccogliere il chiaro successo che il pubblico del Teatro del Maggio Fiorentino ha tributato a tutti.
Il pubblico, s’è detto… Un pubblico magnifico, rispettoso e conoscitore del titolo. Certo un pubblico sempre amante di Riccardo Muti, che qui s’è rivelato internazionalmente tanti anni fa e che s’è ripresentato, divertito e rilassato come poche altre volte s’è visto.
Davide Toschi