PUCCINI Il tabarro L. Salsi, G. Kunde, M. Agresta, D. Pieri, E. Shkoza, M. Miglietta, V. Gargano, E. Niave BARTÓK Il castello del principe Barbablù S. Vörös, M. Petrenko; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Johannes Erath scene Katrin Connan costumi Noëlle Blancpain
Roma, Teatro Costanzi, 16 aprile 2023
Con originale idea, l’Opera di Roma e Michele Mariotti hanno avviato un progetto triennale nel quale il Trittico di Giacomo Puccini viene “scomposto” e “ricomposto” accostandone di volta in volta i singoli atti unici a titoli che per varie ragioni si vogliono con essi collimanti: così al Tabarro si giustappone ora il Castello del principe Barbablù (entrambi i lavori sono del 1918); al Gianni Schicchi si accosterà L’heure espagnole di Ravel e a Suor Angelica, Il prigioniero di Dallapiccola. Progetto interessante sulla carta, ma che ha il rischio nascosto di porre a confronto tre partiture — destinate a “convivere” in un progress sapientemente architettato — con altre non solo rispetto a queste esotiche, ma tali da evidenziare che tal Puccini non è forse tutto allo zenith della sua parabola creativa. Così Il tabarro ha mostrato più una ragionata volontà d’“entrare” in un genere, più di voler porre il piede sul terreno accidentato d’un realismo operistico ispirato al romanzo naturalista francese, che la felicità dell’invenzione e dell’esito musicale e teatrale. Se delibato “prima” di Suor Angelica e dello Schicchi,le manchevolezze e soprattutto i manierismi, passano e restano sullo sfondo: così invece,, quasi “nudo” accanto al coevo, ma ben più memorabile, Bartók di A kékszakállú herceg vára, questa Houppelande italica mostrava tutto il suo non pregevolissimo conio. Che certo si sarebbe potuto agghindare d’alcune bellurie più sofisticate del piglio veloce assai e sonoro assai e drammatico assai per cui Mariotti ha optato. Ed è parso strano – dopo quella magnifica Aida andata nello stesso Costanzi or non è molto – udire un’orchestra poco trasparente, poco incline all’idillio e al bozzetto (passati via un po’ sbrigativi), talora poco amichevole verso il palcoscenico, tutta incentrata su una crescente violenza fonica: a segno tale che, nella conclusione di “Nulla! Silenzio”, proprio al celebre “Dividi con me questa catena. Accomuna la tua con la mia sorte. La pace è nella morte!”, a Luca Salsi, contro l’insormontabile marea strumentale, son mancati orientamento e voce. Eppure nel resto dell’opera Salsi aveva dato una raffigurazione di Michele che, se non diciamo eccelsa (non è questo il suo repertorio), era stata venata d’una giusta ed introversa malinconia. Maria Agresta ha sempre il timbro e il canto gradevoli e signorili di cui natura e scuola l’han provvista: il ruolo di Giorgetta le si addice meno d’altri, meno certo di quel Verdi più lirico che le va a pennello o d’autori nei quali il suo bel legato, la sua propensione patetica hanno modo di figurare. Qui forse le è mancata un po’ di sensualità e qualche tensione nel settore acuto non era negabile. Come negare invece l’intatta gagliardia di Gregory Kunde quale temperamentoso Luigi, squillante e giovanile come non mai, eppur alieno da ogni eccesso? Così come la Frugola della veterana Enkelejda Shkoza ha caratterizzato in modo a tratti polarizzante il suo personaggio, attirandosi applausi fra i maggiori della serata. Accettabili gli altri, compresa la fresca, giovanissima coppia degli amanti.
Abbiamo meglio apprezzato Mariotti ne Il castello del principe Barbablù. Di cui ha offerto una lettura non stilizzata, fredda e aguzza come è spesso d’uso, ma solenne, piena di pause e di silenzi lunghi, quasi un rituale nero ove il vampiresca dominio del Duca (chissà perché tradotto “principe”: al secolo era costui Gilles de Montmorency-Laval, barone di Rais e generale dell’armata di Giovanna d’Arco, forse per questo poi accusato d’orrendi crimini e impiccato dall’Inquisizione, entrando nella storia nera d’Europa quasi al pari di Vlad Tepes Draculea), la sua egemonia psicologica – dicevamo — man mano cedono al non resistibile fascino erotico di Judit. Capolavoro del compositore ungherese al pari de Il mandarino meraviglioso e che Mariotti ha portato a temperature roventi, pur mantenendovi l’incedere sadicamente lento d’un racconto di Edgar Allan Poe. Disponeva il nostro direttore d’una Judit ideale come Szilvia Vörös (allieva di Eva Marton), dalla vocalità salda e possente, capace di nascondere ribrezzi e paure dietro una fascinazione, una voluttuosità che sono le sue sole e letali armi di difesa. Notevolissimo anche l’Herceg del russo Mikhail Petrenko, la cui voce non è certo bella, anzi ruvida e diseguale, ma ha volume ed estensione importanti e l’interprete ha un fraseggio vario ed efficace, sottolineato anche da notevoli doti d’attore.
Ora si dovrebbe dire della regia di Johannes Erath. Della quale molte firme hanno esibito i pregi e le chiavi di lettura. Le abbiamo lette con curiosità. Una sosteneva che “Partendo da un rimbalzo nella nostra attualità del dato realistico e psicoanalitico per entrambe le opere, il regista ne ha filtrato la sostanza drammaturgica seguendo un doppio taglio ottico, surreale e metateatrale a un tempo” (Paola De Simone). Ed un’altra diceva: “Straordinariamente la regia di Erath mostra un Tabarro nuovo, non esteticamente rinnovato, ma sradicato da certi tradizionalismi polverosi e restituito al pubblico in una chiave inaspettata e affascinante. I mezzi scenici vengono impiegati per costruire un continuum spazio-temporale in cui realtà e pensiero convivono” (Emiliano Metalli). A tali concetti rari e preziosi, noi opponiamo che neppur essi e neppur il programma di sala arrivano a darci conto delle “situazioni” in scena, per l’una come per l’altra opera. Fra esse “situazioni” poniamo le immancabili gabbie, grandi o piccole che siano (un’ossessione registica ormai?), citazioni figurative (L’isola dei morti di Böcklin) e proiezioni ectoplasmiche; mimi, saltimbanchi e drag queens a volontà. E le piccole allieve della scuola di ballo impegnate in un “passo dei cignetti”, nel Tabarro a quattro e nel Castello a solo? E che dire dell’inizio di quest’ultimo con una mediocre registrazione del quartetto “La morte e la fanciulla” di Schubert, cui segue un Prologo recitato che neppur alle medie l’avremmo detto così male? Tuttavia siamo ormai convinti di esser noi ad aver dei limiti e che forse tal regia era geniale e istruttiva e tant’altro. Forse. Bella di certo no.
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni / Opera di Roma