CIAIKOVSKI Evgeni Onegin M. Werba, S. Pirgu, J. Relyea, A. Giovannini, M. Bayankina, Y. Matochkina, A. Viktorova, I. Dragoti, A. Ganchuk, A. Espinosa; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore James Conlon regia Robert Carsen scene e costumi Michael Levine
Roma, Teatro dell’Opera, Sala Costanzi, 25 febbraio 2020
L’opera lirica è un’arte difficile: richiede uno studiato, peculiare concerto di “diverse bellezze” (orchestra, voci, regia, scene, costumi) che è assai arduo far giungere ad una reale unità poetica. Abbiamo avuto questa rara, felice percezione dall’Evgeni Onegin di Ciaikovski andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma, con una dedica iniziale a Mirella Freni che ha suscitato applausi interminabili. Collimavano qui anzitutto la direzione d’orchestra di James Conlon e la regia di Robert Carsen. La specularità fra interpretazione musicale e interpretazione scenica è la più insolita a trovarsi tra le “diverse bellezze” di cui sopra. Sia Carsen che Conlon hanno scelto la via dell’essenzialità, della decantazione d’ogni possibile scoria retorica per mostrare musica e sentimenti allo stato puro. Il direttore americano ha impresso a un’orchestra d’impeccabile risposta, una vibrazione continua, un fremito sottile e pudico, ma tale da osservare e riferire tutti i trasalimenti e i languori, tutti gli sconforti e gli aneliti, tutte le rabbie e le dolcezze del dettato ciaikovskiano. Le tante passioni in atto (fondante l’urto tra spleen e sensualità) non hanno avuto il gesto eloquente della tradizione russa, da Khaikin a Rostropovich, bensì un linguaggio asciutto e stilizzato di accattivante modernità, ma anche di sconvolta pregnanza drammatica. E basti pensare sia alla scena del duello, con la lancinante perspicacia timbrica dei fiati emergenti e il morbido, ma angosciato canto degli archi gravi; sia al duetto finale, dove la dimensione assai intimizzata del suono mai contraddiceva all’affilatura implacabile degli interventi dell’orchestra intorno al canto. Ci è apparso inoltre ben chiaro come Conlon abbia “registrato” i colori dell’orchestra, facendone man mano crescere le dominanti: dalla soavità chiara, pur malinconica ma lieve dei primi quadri, fino alla densità cupa degli ultimi. A dir diverse quelle che il principe Gremin chiama “tutte le età soggette all’amore”.
Così in scena: Robert Carsen ha tolto quanto potrebbe distrarre dai personaggi e dall’azione. Ogni luogo è apparentemente vuoto. In realtà i colori, i pochissimi cenni d’uno spazio e d’un tempo forse solo ricordati (le betulle e le foglie morte del giardino, le sedie e i tavolini d’epoca, la nebbia e la neve) e le luci spettacolose, ottengono risonanza visiva alla musica, amplificano e indagano l’eco dei suoni e delle parole, aprendone fin le più riposte ragioni. All’interno dei luoghi, può esser appunto mentali più che effettivi, una direzione d’attori sapientemente calibrata sulla personalità fisica dei cantanti – vestiti con i costumi d’epoca bellissimi di Michael Levine – portava a totale definizione l’umanità elegante e dolorosa d’ogni figura creata e ricreata da Pushkin e Ciaikovski, accentuandone anch’egli il tormentato progress degli affetti. Non siamo stati entusiasti tuttavia della celebre Polacca trasformata in una lunga vestizione di un frastornato Onegin; mentre le superstiti scene danzate (tra cui impagabile la corsa degli invitati come silhouettes scure su un fondo color cielo) sono apparse assai piacevoli. Taluni quadri d’insieme, infine, non nascondevano citazioni viscontiane, dal ballo de Il Gattopardo alla Traviata alle celebri Tre sorelle di Cechov.
Di rilievo la distribuzione vocale. Maria Bayankina (Tatjana) possiede mezzi e taille di grande prestigio (ha in repertorio Il pirata come Sadko o La traviata): è distaccata e altera fin dall’inizio, l’amore per Onegin appare per lei forse più incidentale che vitale, ci dona una “scena della lettera” forbitissima ma meno appassionata del consueto, vive gli eventi tragici con nobile smarrimento; nell’ultimo atto sembra uscita da una di quelle fotografia della corte imperiale di Nicola II: e il canto è di adeguato lignaggio. Markus Werba non avrà la voce più bella del mondo (lo diceva Hvorostovsky di Bastianini), ma ha tecnica eccellente e disegna un Onegin forse tra i più penetranti dei nostri giorni, diviso com’è tra atteggiamenti da giovin signore blasé – tanto distratto e annoiato, quanto egoista e crudele – e sprazzi di bramosia amorosa a cui lui stesso (e Ciaikovski) crede e spera in modo effimero.
Saimir Pirgu è stato un Vladimir Lenski dal pregevole timbro, sonoro e argentato, tuttavia spesso troppo fermo sulle dinamiche del forte o mezzoforte: mentre le possibilità di tinte e di nuances date dal suo meraviglioso ruolo sono ben maggiori, come insegnano voci e cantanti “che qui nomar non oso”. Yulia Matochkina ha tratteggiato un’Olga d’inflessione appena gutturale (russa tipicamente), ma energica e scervellata quanto basta. John Relyea è come sempre un po’ cavernoso e a tratti intubato, ma il suo Gremin mostrava un bel legato e una prospettiva crepuscolare assai calzante. Perfette nei loro ruoli Irida Dragoti (Larina) e Anna Viktorova (Filipevna), così come la caratterizzazione di Andrea Giovannini nei leziosi panni di monsieur Triquet. Né va dimenticato Andrij Ganchuk nel severo pastrano di Zarecki.
Successo indiscutibile per tutti, ma specialissimo per Markus Werba e James Conlon.
Maurizio Modugno
Foto: Yasuko Kageyama / Opera di Roma