Jakub Hrůša inaugura la Stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con una memorabile esecuzione della Seconda Sinfonia di Gustav Mahler
MAHLER Sinfonia n. 2 in do minore “Risurrezione” soprano Rachel Willis-Sørensen contralto Wiebke Lehmkuhl Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Jakub Hrůša
Roma, Parco della musica, Sala Santa Cecilia 8 ottobre 2021
Era già venuto a Santa Cecilia diverse volte il direttore moravo Jakub Hrůša, ma non avevamo mai potuto assistere ad un suo concerto: e l’attraente serata con la Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvořák e la Messa glagolitica di Janáček, prevista nella scorsa stagione, era fra quelle annullate per cause pandemiche. L’averlo visto e ascoltato in disco e in televisione però, ci aveva dato impressioni di tale positività che desideravamo con curiosità aver diretta contezza di lui, tanto più in questa inaugurazione della Stagione 2021-2022 dell’orchestra ceciliana e con la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Del resto è con il CD della Quarta dello stesso autore che egli ha or guadagnato il Preis der Deutschen Schalplattenkritik. Ed è recentissima la sua nomina a direttore principale dell’orchestra accademica romana. Ma chi è Jakub Hrůša, nome di non facile pronuncia (che dovrebbe suonare “Khrusha”) e tra noi non ancor popolarissimo? Nato a Brno nel 1981 in una famiglia di architetti, Hrůša ha studiato nella città natale e a Praga, allievo fra gli altri di quel Jiří Bělohlávek (grande bacchetta uscita dalla scuola di Celibidache) del quale egli afferma tranquillamente “senza di lui non sarei divenuto nulla di ciò che sono”. Nel 2003 Hrůša vince a Zagabria il Concorso Internazionale per giovani direttori “Lovro von Matačić” e inizia una carriera veloce, che lo ha portato dalla Filarmonica Ceca a Radio France, da Glyndebourne alla Royal Danish Opera, da Berlino a Chicago ed ora ad esser ospite principale alla Philharmonia di Londra e direttore stabile alla Bamberger Symphoniker fino al 2026.
Il primo impatto con la direzione di Hrůša viene, stavamo per scrivere “dal gesto”, ma è più giusto dire che viene dalla sua fisicità. La sua – come dire? – è una “direzione a figura intera”, nella quale tutta la persona sembra lottare per generare musica. Non nel modo prossimo all’ estasi di Bernstein o di Carlos Kleiber, ma in una totalità di coinvolgimento corporeo, latrice d’una implacabile lucidità di ragione ed insieme d’ una tensione elettrizzante di nervi e di sensi. Potenza e stilizzazione, vitalità e riflessione sembrano convivere all’estremo nella dimensione direttoriale di Hrůša: portando ad attualità i modi ch’erano stati (proprio) d’un von Matačić (ma senza le sue nostalgie imperiali) o d’un Georg Solti (ma senza alcuna deformazione espressionista) o d’un Karel Ančerl (forse con minor elegia). Perché è poi innegabile che le matrici slave di Hrůša ci siano e ben visibili: non solo nel repertorio più di frequente proposto (Smetana, Dvořák e Janáček ne sono i pilastri), ma anche nella peculiare qualità del suono e in certo estro barbarico che non teme i contrasti, che fa propria la violenza come il lirismo più accesi, il canto espanso come il sarcasmo graffiante. Ecco che allora questa Seconda sinfonia mahleriana è venuta fuori in modi inattesi e a maggior ragione impressionanti. Anzitutto in una riscoperta serie di pregi dell’orchestra ceciliana: condizionata per troppo tempo da una sonorità “all’inglese” degli archi (morbida, piacevole, ma assai soft) e da una cura spesso poco esigente delle sezioni a fiato, ottoni in particolar modo. L’attacco fulminante degli archi nell’Allegro maestoso iniziale, della Sinfonia, di quel Totenfeier che Mahler voleva (come poi il primo movimento della Terza), a mo’ di Prologo all’intera partitura, ha per contro invaso la sala accademica con una percussione sonora e drammatica (nel senso teatrale dell’aggettivo) come di rado qui s’era udito. E la seguente entrata dei fiati ha pur evidenziato qual sarebbe stato il Mahler di Hrůša: forte, virile, pochissimo incline ai byroniani “pianti, rimpianti e compianti” (tutti i lunghi cantabili dei cinque movimenti ne saranno quasi sempre assai depurati), per nulla rinunciatario, mai sopraffatto. La Auferstehung è apparsa come uno specchio sonoro del lungo, notturno combattimento di Giacobbe con l’angelo nel deserto. La visione finale di un Cielo (nel senso più ampio e spirituale possibile) è l’esito di tal acerrimo e sfiancante scontro e dà accesso ad una totale chiarezza sul mondo, sull’uomo e sulla sua capacità di trascendenza. In tutto tal percorso sembrano scatenarsi temibili nuclei d’energia primigenia, come aprirsi scenari naturali di tenerezza e consolazione: “territori intimi e leggeri” – ha notato lo stesso Hrůša – “attraversati da melodie cantilenanti”, fino all’ultimo movimento, “un Lied caratterizzato da un candido lirismo”. Con tempi nell’insieme ampi, talora lenti eppur mai rilassati, il direttore moravo ha seminato alcune ulteriori connotazioni personali di caratura non comune: ad esempio il rilievo inusuale dato a quella sezione del secondo movimento “Andante moderato”, nella quale si cita esplicitamente un passo della Nona di Beethoven. Così come ha curato amorevolmente i corni e gli ottoni (in scena e fuori scena), capaci di sostenere a perdifiato frasi lunghe e legate o di produrre piani e pianissimi d’eccezionale bellezza. Nel finale, Hrůša ha acceso le luci e i colori della grande abside Jugendstil e le ha conferito una spazialità ed un respiro che, lungi dal volerne smorzare la retorica (alla Claudio Abbado), l’hanno resa convergenza delle speranze dell’Uomo del nostro tempo, “un augurio luminoso e un manifesto di intenti”, come egli stesso ha affermato in un’intervista.
Assai brave il soprano Rachel Willis-Sørensen e il contralto Wiebke Lehmkuhl. E alla fine un autentico trionfo per il direttore, per il coro e per l’orchestra. Sarà assai interessante il confronto ravvicinato con Kirill Petrenko, qui la settimana prossima per un concerto con Mendelssohn, Brahms e Debussy.
Maurizio Modugno
Foto: Musacchio, Ianniello e Pasqualini.