OFFENBACH Les Contes d’Hoffmann I.A. Rivas, P. Gardina, G. Bridelli, A. Esposito, D. Pieri, R. Pérez, C. Remigio, V. Gens, F. Giansanti, Ch. Collia, F. Piolino, Y. Dubruque, F. Milanese; Orchestra del Teatro La Fenice, direttore Frédéric Chaslin maestro del coro Alfonso Caiani regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti light designer Alessandro Carletti coreografia Chiara Vecchi
Venezia, Teatro La Fenice, 2 dicembre 2023
«Ho pensato ai Contes d’Hoffmann come a un viaggio nel tempo uno sguardo nelle diverse età della vita del protagonista: il bambino, il ragazzo, il giovane uomo già disilluso, tutte riflesse nelle protagoniste femminili Olympia, Antonia e Giulietta. Stella chiuderà la vicenda distruggendo le illusioni di Hoffmann, un po’ come fosse lei stessa il diavolo. Lui si troverà solo, in compagnia di tutti i simboli del suo passato fantastico, che costituiscono il suo universo poetico». Sono le parole di Damiano Michieletto, regista dell’opera che ha inaugurato la stagione 2023-2024 del Teatro La Fenice. Una coproduzione nata per il 50° anniversario della Sydney Opera House in collaborazione con la Royal Opera House di Londra, l’Opera National de Lyon e il Teatro veneziano.
Una produzione che ha messo ancora una volta in risalto la fantasia sfrenata di uno dei massimi registi d’opera di oggi che, assieme al suo consueto team creativo formato dallo scenografo Paolo Fantin, dalla costumista Carla Teti, dal light designer Alessandro Carletti, cui si è unita Chiara Vecchi per le coreografie, ha dato prova di un amore incondizionato per il melodramma e del proposito di dare vita ogni volta a riletture che lascino il segno. Si può essere d’accordo con lui o lo si può contestare, ma quel che è certo è che ogni suo spettacolo ha una coerenza interna e una tenuta che raramente si ritrovano in altri registi.
In questa produzione le storie d’amore di Hoffmann sono storie di innamoramenti adolescenziali, di fallimenti di frustrazioni, di trasgressioni e di fantasia. Non la storia di un poeta romantico, ma quella di un uomo che vive nella sua immaginazione, delle sue visioni. Quello che si presenta in scena nel prologo è un vecchio, un outsider che arriva in una locanda, mezzo ubriaco e in compagnia dei suoi fantasmi del passato. Quelli che poi inizia a raccontare dando avvio alla vicenda, che tocca momenti diversi della sua vita.
L’incontro con Olympia avviene sui banchi di scuola: un Hoffmann in calzoncini corti, una compagnia di scolari indisciplinati, il maestro Spallanzani e sua figlia-automa Olympia, di cui Hoffmann si innamora perdutamente. Olympia è la prima della classe, lascia tutti stupiti per la facilità nel far di conto, il suo essere una bambola meccanica nella quale è stato trapiantato un cervello umano giustifica i suoi movimenti innaturali. Un fuoco d’artificio di trovate (e di autocitazioni, in particolare dal Flauto magico veneziano di qualche anno fa) quello escogitato da Michieletto, che si conclude con la terribile scena dello svelamento dell’inganno: il terribile Coppelius, rimosso il cervello umano dalla bambola, la getta dall’alto, distruggendola e svelando l’inganno tra la disperazione di Hoffmann.
L’atto successivo è altrettanto geniale. Antonia non è, come nel libretto, una cantante, ma una ballerina cui la malattia ha tolto l’uso delle gambe. È ricoverata in ospedale dove avviene l’incontro con Hoffman. Questa volta il poeta è un giovane consapevole del proprio amore e intenzionato a ridare speranza all’innamorata. Antonia si rivede bambina alla scuola di danza e nostalgicamente pensa al suo sogno negato d’artista. Solo la madre, che compare alla fine dell’atto nelle vesti di una ballerina matura, la invita a non desistere e a provare a danzare ancora. Ma i malefici del dottor Miracle la condurranno alla morte.
Infine l’atto di Giulietta è ambientato in una sorta di salotto notturno, frequentato da gente mascherata: un ambiente equivoco, lussurioso e ambiguo che ricorda da vicino l’orgia di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Qui un Hoffmann maturo incontra l’algida Giulietta, prostituta d’alto bordo. Spinta da Dappertutto, la costante presenza demoniaca che decide le sorti della vita di Hoffmann, ruba l’anima all’innamorato con un incredibile gioco di specchi realizzato con virtuosismo tecnico dal bravissimo scenografo Paolo Fantin.
Nel finale si ritorna nella taverna dove tutto aveva preso avvio, tra la materializzazione dei fantasmi e dei personaggi più irreali nati dalla fantasia tormentata del protagonista: topi, fate con le ali, donne mascherate, diavoletti con le corna, un trampoliere, il fido compagno Nicklausse vestito da pappagallo. Un’atmosfera grottesca e surreale nella quale è la perversione del male a farla da padrone. L’illusione di Hoffmann di trovare finalmente il vero amore nella diva Stella, che Michieletto fa impersonare dal diavolo (il ricordo corre a Baba la Turca de The Rake’s Progress presentato a Venezia nel 2014, personaggio dall’incerta identità sessuale che Michieletto aveva furbescamente trasformata nella drag queen Conchita Wurst).
Per dar vita allo spettacolo, Michieletto ha concordato con il direttore e gli artisti una versione ad hoc della partitura che, come è noto, ha avuto una vicenda compositiva ed editoriale molto complessa. Sono stati tagliati i dialoghi parlati, escluse arie famose come Scintille, diamant e l’aria di Giulietta. Scelte assolutamente discutibili, ma che nel caso di questa controversa partitura offenbachiana non fanno gridare allo scandalo.
Detto delle scelte di regia, dei bellissimi e fantasiosi costumi di Carla Teti, delle scenografie del fido Fantin e delle suggestive luci di Alessandro Carletti (con straordinari effetti di ombre nel prologo e nell’epilogo), è doveroso dire che molto merito della riuscita dell’opera va attribuito anche al cast vocale.
A cominciare dal protagonista, il tenore peruviano Ivan Ayon Rivas che ha mostrato invidiabile tenuta vocale in una parte lunga e defatigante: registro acuto squillante, attenzione al fraseggio e credibilità scenica nel rispondere alle innumerevoli sollecitazioni richieste dal regista. Rivas è risultato toccante negli squarci lirici e appassionato amante nei momenti più tesi con una voce di ottimo smalto, utilizzata con gran classe. Quella classe che ha fatto brillare Alex Esposito, al punto da garantirgli una presenza protagonistica nei quattro ruoli demoniaci interpretati (Lindorf, Coppelius, Le docteur Miracle, Dapertutto): davvero un grandissimo interprete capace di differenziare i personaggi e di sprigionare un magnetismo e un carisma catturanti. La voce è quel prodigio di penetrazione e di flessibilità che siamo abituati a conoscere.
Tra i ruoli femminili, va sicuramente ricordata l’Olympia del soprano spagnolo Rocío Pérez, la più applaudita: della bambola meccanica ha riproposto con bella sicurezza gli sfrenati virtuosismi vocali, ma anche una certa fragilità e candore che ben si associano al personaggio. Carmela Remigio ha invece innervato di calda e dolente umanità la figura di Antonia, immedesimandosi appieno nelle scelte registiche. Algida e fredda la Giulietta di Véronique Gens, in parte per precise indicazioni di Michieletto e in parte per una non del tutto credibile immedesimazione del personaggio. Vivace e a fuoco la prova vocale e attoriale di Giuseppina Bridelli come Nicklausse e volutamente stralunata e divertentissima attrice Paola Gardina nei panni di La Muse.
Non si possono infine dimenticare Didier Pieri nei ruoli di Andrés, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio, Yoann Dubruque nel doppio ruolo di Hermann e Schlémil. Un po’ compassato François Piolino come Spalanzani.
Sul podio Frédéric Chaslin, che del titolo offenbachiano è uno dei massimi conoscitori, avendolo diretto più di 700 volte. Esperienza che, tuttavia, lo porta ad essere un affidabile routinier, certo non un interprete fantasioso. Bacchetta tendenzialmente pesante, non ha saputo sprigionare dall’orchestra quella fantasia strumentale e coloristica che è propria della partitura, quella leggerezza ed eleganza tipicamente francesi che sono connaturati allo stile compositivo di Offenbach. Ne sono stati un esempio lampante l’attacco della celebre Barcarolle così morchioso e per nulla evocativo, la mancanza di sensualità sempre nell’atto di Giulietta o i molti clangori inopportuni che hanno reso poco fascinosa la sua lettura.
Al termine successo vivissimo da parte del pubblico deliziato dalla musica e soprattutto dalla fantasia registica di Damiano Michieletto.
Stefano Pagliantini
Foto: Michele Crosera