GERSHWIN Tre preludi pianoforte Nicole Costoli Rhapsody in Blue violini Silvia Mazzon e Giovanna Nespolo viola Mattia Tonon violoncello Vladimir Zubitsky pianoforte Marcello Mazzoni The man I love violino Silvia Mazzon pianoforte Marcello Mazzoni L. BOULANGER Nocturne violino Silvia Mazzon pianoforte Marcello Mazzoni D’un jardin clair pianoforte Nicole Costoli CLARKE Down The Salley Garden, Lullaby, Untitled piece, Passacaglia, I’ll bid my heart be still viola Silvia Mazzon pianoforte Marcello Mazzoni GERSHWIN Lullaby violini Silvia Mazzon e Giovanna Nespolo viola Mattia Tonon violoncello Vladimir Zubitsky
Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (festival dei Pianisti Italiani), 23 luglio
“Rhapsody in Blue, Gershwin Anniversary”, titolava il concerto del Festival dei Pianisti Italiani per i cent’anni della Rapsodia che, al suo apparire, cambiò molte cose: certamente l’arco della carriera del suo autore, ma anche uno spicchio di storia della musica, che si ritrovò non più tanto sicura del suo “genere”, delle suddivisioni araldiche accertate. Alla “prima”, quell’ormai famoso 12 febbraio 1924, la Rhapsody in Blue risuonò – all’interno d’un concerto che si pretendeva, come da titolo, “An Experiment in Modern Music” — coi timbri asprigni d’una jazz-band ad accompagnare il piano solista, ma ben presto fu sentito il bisogno di “nobilitare” la strumentazione per una vera e propria orchestra sinfonica. Entrambe le volte, il cómpito fu svolto, con la bravura che la storia gli ha fin qui riconosciuto, dall’eccellente Ferde Grofé, Gershwin essendosi limitato a fornire la particella per due pianoforti. Ciò che rende affatto ozioso (e sciocco) disquisire se la versione ascoltata a Reggio, per pianoforte e quartetto d’archi debba considerarsi una trascrizione non d’autore: questi aveva rinunciato ab origine a quella parte d’autorità sull’opera. La storia c’insegna che per la Rhapsody in Blue – ma intendiamoci bene, a voler essere non ciechi né sordi, la storia ce lo insegnerebbe anche per tutto il resto del repertorio, se lo stesso Schönberg arrangiava e faceva arrangiare perfino sé stesso per le Privataufführungen della sua Società di adepti – a contare è la sostanza musicale, non la forma della scrittura. La musica deve prima di tutto essere sonata; se poi, qualche volta, càpiti che suoni male vorrà dire che qualcosa è andato storto, ma non sarà certo per aver sostituito – ad esempio – il violoncello con una fisarmonica o un clarinetto con la viola.
Come è stato fatto nell’esecuzione reggiana della Rhapsody, ove il celeberrimo fischio iniziale del clarinetto è stato stravolto (con quale bravura del sonatore!), in un sibilo dell’arco contralto, a sua volta diverso (quel colore inimitabile della viola, le corde che un poco stridono prima di incielarsi con un guizzo meno sberleffo e meno melanconico, più ridente) e imitazione perfetta (ma quasi parodica, ironica) dell’originale! Lo svolgimento di questa rapsodia – che in realtà è piuttosto ben strutturata – è stato un bouquet ricco di delizie musicali, da parte del quartetto ben affiatato negli splendidi solisti, e da parte del pianista Mazzoni, il quale si è rivelato un camerista di pregiata duttilità, piegando il suo esplosivo talento alle ragioni più ricercate di un protagonismo condiviso, quale egli si era già rivelato, pochi giorni prima, nell’Imperatore beethoveniano in versione cameristica.
La bella serata registrò almeno altri due fatti da pregiarsi. Primo, il lieto ritorno al Festival della giovane pianista Nicole Costoli, che l’anno scorso applaudimmo in un concerto bachiano di rara maturità, quest’anno lettrice intelligente (la Costoli suona mettendo avanti alle ben esercitate dita il cervello) dei tre impegnativi Preludi di Gershwin e del raro D’un jardin clair di Lili Boulanger. E qui siamo al secondo notabile: il programma gershwiniano è stato combinato con una selezione di brani della minore Boulanger (minore per nascita, naturalmente), prima compositrice a vincere il Prix de Rome (nel 1913 con l’impegnativa e bellissima cantata Faust et Hélène) ed oggi ben nota, e di Rebecca Clarke, formidabile musicista britannica appena più anziana di Lili, della quale si sta tentando un meritato rilancio dopo diversi decenni di oblio. Il dato più encomiabile di questa scelta di programma è stato di aver presentato due compositrici senza sentire il bisogno di crociate femministe: il silenzio è sempre l’eloquenza più sonora!
E la musica è il retore più convincente: retore che ha presentato Lili Boulanger nella luce di lei più soffusa dei ninnoli da salotto, un genere nel quale la compositrice – portata agli affreschi drammatici d’un Veronese – rimaneva, a parer mio, costretta nel garbo un poco scialbo della damigella per bene. Mentre, presentando la Clarke, quello stesso rètore ha trovato fertile terreno per esporre non solo la profonda malinconia della musicista, ma anche l’ispirazione originale che guidava questa singolare e troppo sottopregiata artista. Nella Clarke, anche i piccoli pezzi di carattere acquistano una sostanza grave, una complessità espressiva che li rende dei compiuti microcosmi, siano essi rivisitazioni di tunes tradizionali, una strutturata e densissima passacaglia, o la straziante, non grifagna Grotesque dell’Untitled Piece. Brani, tutti, eseguibili su diversi strumenti, ma perfettissimi per la viola (strumento prediletto dalla Clarke, la cui Sonata è tra i capolavori novecenteschi per lo strumento), che l’arco sapiente di Silvia Mazzon rende sortilegio d’incantesimo, impreziosito dall’intesa consolidata con Marcello Mazzoni, poeticissimo senza languori, Begleiter discreto ma non defilato.
Il finale è stato affidato a quel capolavoro obliquo che è la Lullaby per quartetto d’archi di Gershwin: come per la Clarke, la berceuse è per il compositore di Porgy and Bess solo lo spunto per una riflessione più profonda; a differenza che in Rebecca, in George la riflessione è meno intima e più ironica. La Lullaby è, infatti, un lavoro perfettamente compiuto nel più perfetto stile e nella più esatta forma “classica”, nel quale felicità d’invenzione melodica e originalità d’armonie decretano l’impegno del compositore nella scrittura. Ma l’impressione che man mano la musica si svolge tende ad emergere è un’ironica sentenza di morte, un congedo del compositore che dà la “buonanotte al secchio” del buon costume tradizionale e – con un velo discreto e appena abbozzato di stizza – s’appresta a diventare il pioniere della nuova musica americana.
Un’esecuzione affettuosa, appena sussurrata di Summertime – come poteva mancare il 23 di luglio?! –, per pianoforte (la Costoli) e quartetto suggellava una serata che si immaginava dissetante e si è rivelata un memorabile invito all’enologia di pregio.
Bernardo Pieri