PUCCINI Turandot I. Brimberg, M. Sheshaberidze, G. Gianfaldoni, M. Pertusi, N. Pamio, S. Del Savio, M. Pierattelli, A. Lanzi, A. Corrado, D. Prola, R. La Vecchia, E. Braynova, N. Cabassi; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Jordi Bernàcer regia scene costumi coreografia e luci Stefano Poda
Torino, Teatro Regio, 28 aprile 2022
La Turandot “globale” di Stefano Poda era stata una delle ultime produzioni ambiziose realizzate dal teatro torinese appena prima della sua lunga fase di instabilità strutturale e artistica, a inizio 2018. Dei pregi e limiti dell’allestimento si era parlato all’epoca (MUSICA n. 294) e in questa occasione sono parsi riconfermati. Poda legge l’opera in chiave psicoanalitica (in sé, non una novità), fa della Principessa una proiezione dell’inconscio di un Principe Ignoto che scioglie gli enigmi entrando e uscendo da una sala d’attesa fra le quinte che fa intravedere una bianca chaise longue Le Corbusier. Come martellano le Maschere, “Turandot non esiste”, e il regista visualizza l’idea frantumando e moltiplicando fisicamente l’immagine della protagonista, rendendo non facilmente identificabile colei che le dà voce. Calaf passeggia nell’illusione e la contempla senza emozioni e ci si chiede se l’inconsistenza non riguardi anche lui. Affiora Lacan, secondo il quale “l’amore è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole”. Dunque, il nulla, un nulla a cui Poda dà forma con l’ossessivo accumulo di simbologie molteplici, nei gesti, nei colori, nei costumi e negli orpelli, secondo il suo stile personale, opinabile in termini di gusto ma se non altro qui consono a quel “cerimoniale enorme, impassibile e crudele” nel quale Fedele d’Amico aveva acutamente individuato il vero salto fatto da Puccini in direzione dell’estetica della modernità. Sono molti i sacrifici drammaturgici, sui quali però si può evitare di insistere, perché Poda è abile nel far sì che il suo concept non incontri alcuna resistenza nel pubblico, che non si pone troppe domande, soggiogato da una spettacolarità abbagliante, un universo onirico minimal e glitter ad un tempo, al quale va riconosciuto di essere tutto sommato costruito sulla musica. L’edizione si ferma all’epicedio di Liù, risorta e trasfigurata, il che è funzionale all’idea, sgravata dall’obbligo di conciliarsi con l’happy end. Né ci sono rimpianti sul piano vocale, perché la protagonista Ingela Brimberg non intuisce alcunché della parte sul piano psicologico, limitandosi a risolverla in una dimensione sonora di adeguato peso, ma con sensibili squilibri nei registri e un controllo generale deficitario. Quanto ad apatia espressiva, il tenore Mikheil Sheshaberidze non è stato da meno, ma se non altro ha governato con disciplina una voce interessante ma priva dello smalto lucente che qui sarebbe d’obbligo, evitando di compensare con accenti stentorei. Un’ammirevole Liù è stata Giuliana Gianfaldoni, capace di note filate di grande suggestione ma anche di un canto di compostissimo stile, che via via riesce a liberarsi con autentico abbandono. Fra le Maschere si è distinto il Ping di Simone Del Savio, Adolfo Corrado ha dato grande rilievo al Mandarino, mentre Nicola Pamio è parso più incerto come Altoum (ma va detto che la trovata di Poda di far cantare l’imperatore in modo sfogato a proscenio non ha alcun senso). Pur spesso costretto all’invisibilità, il coro diretto da Andrea Secchi è stato all’altezza dei suoi ben noti meriti. Jordi Bernàcer ha dato il meglio di sé in un primo atto di convulso e barbarico turgore, con una compattezza che in seguito è parsa sfilacciarsi, evidenziando in non pochi casi una certa imprevedibilità agogica che certo non è stata di aiuto al palcoscenico.
Infine, Michele Pertusi. Può capitare che una Turandot diventi memorabile per Timur? Non l’avrei mai pensato, eppure così è stato. Incisa e debuttata da poco in concerto a Roma, ora portata sulla scena, quella del re tartaro spodestato è l’ultima acquisizione del suo vasto repertorio, per certi aspetti anche inattesa, come scelta. C’è da augurarsi che non rimanga un’esperienza estemporanea, perché non ho esitazioni a dire che nella mia memoria non ho ricordi paragonabili. Fin dal suo primo apparire, è apparso palese che la sua prova sarebbe stata superba, per la dignità data alla figura e la modellatura di ogni accento, impressionanti entrambi. In autentico stato di grazia, con il supporto di uno strumento saldo, sonoro e sicuro in tutta la gamma, oltre che morbidissimo, il suo Timur è stato una autentica rivelazione, portando in piano piano un personaggio in genere risolto genericamente. Non così ha lavorato il grande artista parmense, che ha saputo dare alle poche meravigliose frasi del commovente congedo a Liù tutta la dolcezza e lo sdegnato senso di umano orrore (quel Fa acuto, per una volta così imperiosamente doloroso, ed è essenziale che lo sia) voluti da Puccini. E allora, come non richiamare la ben nota sentenza di Stanislavsky, “Non esistono piccoli ruoli, esistono piccoli interpreti”?
Giorgio Rampone
Foto: Andrea Macchia