HÄNDEL Messiah soprano Yetzabel Arias Fernandez contralto Maarten Engeltjes tenore Tilman Lichdi basso Klaus Mertens Orchestra e coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Ton Koopman
Roma, Auditorio Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 23 marzo 2017
Non poteva che essere un Messiah di compromesso, quello proposto da un riconosciuto specialista della prassi esecutiva filologica come l’olandese Ton Koopman, sul podio della Orchestra sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Si avvertono di certo le origini estetiche del rinomato maestro, che ha selezionato per la serata un apprezzabile quartetto di cantanti solisti, anche se nella seconda delle due parti in cui riduce il celebre oratorio, originalmente in tre sezioni, rinuncia definitivamente alla presenza del controtenore (preferito qui ad un contralto femminile). Il giovane soprano cubano Arias Fernandez ha, infatti, tutte le carte in regola e si esalta nella celebre aria “I know that my Redeemer liveth”, accorata professione di fede nella Risurrezione. Voce morbida e rotonda attesta il controtenore Maarten Engeltjes, limpidezza e pastosa lucentezza per il tenore Tilman Lichdi, mentre esperienza e omogeneità sono le doti del celebre basso Klaus Mertens.
La partitura, si sa, è piena di gemme musicali che esaltano le diverse vocalità solistiche, come anche le caratteristiche di orchestra e coro in una sorta di meditazione, che è preghiera ma anche evocazione diretta e professione di fede, sino alla visione del finale Giudizio (la spettacolare aria del basso “The trumpet shall sound” con tromba solista). Si tollera agevolmente qualche taglio operato nella esecuzione romana (tra cui anche il duetto Alto – Tenore “O Death, where is thy sting?”), che rende più snella la successione musicale.
L’orchestra ceciliana si adatta al meglio alle indicazioni del maestro filologo, limitando il vibrato, curando la messa di voce con l’archetto, conferendo al colore una patina di falsa antichità, cercando una certa libertà nella ornamentazione. Troppo numeroso invece il coro (in genere sarebbero bastati 20/24 coristi mentre qui ne sono impegnati più del doppio dell’occorrente). Il risultato è una certa pesantezza drammatica che, se da una parte apparentemente giova alla magnificenza ed alla grandiosità delle architetture musicali (molti i fugati da antologia), dall’altra toglie qualcosa alla intensità e credibilità dell’espressione ed alla verità degli accenti.
Koopman cura il dettaglio ed i momenti più spettacolari (come la Piva che segna la nascita del Redentore o la finale evocazione dell’estremo Giudizio), ma l’impressione è che l’esecuzione manchi di direzionalità, di un piano programmatico, di una visione d’assieme che ne esalti il climax che non può essere solo, come scontato, l’esultante “Hallelujah” corale che chiude la seconda parte. Ed il difetto si avverte non tanto nel singolo “numero”, quanto nella mancanza di un premeditato fluire musicale. Insomma, una lettura più statica che dinamica, in cui i contrasti coloristici si attutiscono necessariamente. E ciò nonostante Koopman abbia confessato di non aver optato né per la versione di Dublino né per quella londinese, ma piuttosto di aver scelto quelle arie e quei cori secondo lui più funzionali al risultato d’insieme desiderato. Ma il viaggio (musicale e spirituale insieme) resta privo del tessuto connettivo che dovrebbe tenere invece insieme le diverse gemme che costituiscono questo celebrato capolavoro che resta molto di più di una semplice, per quanto geniale, partitura musicale.
Lorenzo Tozzi
©Musacchio & Ianniello