Un Tell poco oleografico apre la stagione del Massimo

ROSSINI Guillaume Tell R. Frontali, D. Korchak, N. Machaidze, E. Shkoza, A.M. Sarra, M. Spotti, E. Cordaro, L. Tittoto, M. Mezzaro, E. Scala e altri. Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo, direttore Gabriele Ferro regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti

Palermo, Teatro Massimo, 25 gennaio 2018

 

Un tronco d’albero sradicato del peso di tre tonnellate e passa; simbolo forte per l’oppressione di un popolo e poi della sua liberazione quando s’invola verso il cielo trainato da potenti argani. Ha viaggiato da Londra a Palermo per la ripresa di un allestimento che nel 2015 aveva scatenato l’inferno politically correct sul capo di Damiano Michieletto a causa di una scena di stupro collettivo, peraltro non condotto a termine. Ma che bigotti quegli spettatori del Covent Garden! Nulla di paragonabile si è ripetuto con lo scafato pubblico del Massimo. Qualche buuh alla prima, sì; ma già alla seconda sera solo tre o quattro voci di “Vergogna!”, “Fa schifo” contrappesate da un “Bravi!” ancor più isolato. Che un esercito occupante si diletti a molestare le belle figliole del paese non fa più notizia dalla presa di Troia e dai Vespri siciliani alle odierne cronache mediorientali; si tratta semmai dei limiti accordabili al realismo della mimesi scenica.

Fra la stilizzata coreografia del fattaccio e un provvidenziale lenzuolone che non ricordavamo così ampio nelle riprese filmate della produzione londinese, qui c’era poco di offensivo. Semmai un tocco di umorismo (involontario?) nella somiglianza tra le uniformi degli ufficiali di Gessler e quelle della nostra Guardia di Finanza. Di altre bizzarrie vorremmo magari chieder conto al regista veneziano. Perché il pescatore Ruodi deve cantare i suoi couplets non già vogando in barchetta, bensì mendicando una zuppa e un bicchier di vino fra i tavoli di una mensa aziendale? E perché mai barcolla mixando i ruttini dell’ubriaco agli stratosferici acuti? Forse per dar ragione alla rampogna di Tell: “Il chante en son ivresse”? Di laghi e montagne si canta abbastanza, ma è proibito mostrarli. “Cartoline, oleografia” dicono i sapientoni, e peggio per la Svizzera che ci ha costruito sopra un discreto fatturato. Tutto sommato il megatronco girevole resta l’idea visiva più memoranda, a parte il casto strip-tease di una Mathilde affettuosa, toffolotta e per nulla altera come invece si converrebbe a una principessa asburgica, sia pure amica del popolo.

Il vero spettacolo si svolgeva nella buca orchestrale, dove l’ottantenne Gabriele Ferro dirigeva con piglio leonino, somma indipendenza delle mani, largo anticipo del gesto e cura analitica di ogni dettaglio agogico, dinamico, espressivo. Non è uno di quei maestri (non facciamo nomi) che si piazzano a favore di telecamera e poi galleggiano a rimorchio del violino di spalla. Oggi ve ne sono pochissimi con un repertorio così ampio, una memoria e una tecnica così solide, una visione strutturale così equilibrata. Donde la magnifica risposta dei complessi di casa, specie di un coro che da quest’opera di taglio epico e collettivo è messo sovente alla frusta. Note liete anche dai solisti. Due debuttanti di lusso nei rispettivi ruoli: il protagonista Roberto Frontali quale meditabondo paterfamilias fattosi eroe suo malgrado e Dmitry Korchak, un Arnold di elegante stampo belcantista (più alla Nourrit che alla Duprez, per intenderci). Mathilde, nel formato di Venere tascabile incarnato dalla georgiana Ninò Machaidze, interpretava un po’ a modo suo anche la coloratura rossiniana, ma risultava nel complesso convincente e simpatica. Belli tonici i congiurati principali Walter Furst (Marco Spotti) e Melchtal senior (Emanuele Cordaro); il perverso Gessler di Luca Tittoto saldamente assertivo nel canto e nel gesto. Alti e qualche basso nella famigliola Tell, con Hedwige (Enkelejda Shkoza) e Jemmy (Anna Maria Sarra) non del tutto calate nella parte perché inclini la prima ad eccessi di vibrato enfatico, e la seconda a mimare un Gian Burrasca troppo cresciuto. Nulla di grave comunque, nemmeno per Enea Scala (Ruodi il pescatore) che in altre occasioni abbiamo udito più franco mentre qui pareva in affanno con un registro acuto alla Florez prima maniera e con la straniante caratterizzazione di cui sopra. Ma sono quisquilie di fronte a un bilancio finale che non registrava un solo calo di tensione nel corso delle quattro ore e 15, due intervalli compresi e al netto di qualche modesto taglio. Ovazioni per tutti, compreso a pieno merito il maestro del coro Piero Monti.

Carlo Vitali

 

Crediti: Franco Lannino / Rosellina Garbo

Data di pubblicazione: 5 Febbraio 2018

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