WEBER Der Freischütz, Ouverture SCHUMANN Concerto per pianoforte e orchestra in la minore op. 54 BEETHOVEN Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 pianoforte Beatrice Rana Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Jakub Hrůša
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 8 gennaio 2023
Se il “nuovo anno” dei Concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia comincia così, magnifiche sorti e progressive è obbligatorio pronosticare per quanto nel seguito della stagione ci si appresta ad ascoltare. Infatti la serata dell’8 gennaio cui abbiamo assistito — insieme ad una quantità inverosimile di pubblico, distribuito anche sulle balconate laterali — è stata quello che è obbligatorio definire un evento degno di memoria. Il programma era senz’altro dei più classici (ouverture, concerto con solista, sinfonia), ma l’approccio interpretativo del direttore,Jakub Hrůša e della pianista, Beatrice Rana, era dei meno inclini alla prevedibilità e men che mai alla routine. Lo si è compreso già dall’attacco rapinoso dell’Ouverture di Der Freischütz: l’Adagio, con quegli archi che paiono tremanti di paura, quei colpi di timpano minacciosi se ve ne furono, con l’esordio pieno e nobilissimo del quartetto dei corni. E un’emozione che sembra già toccare il suo climax: salvo che poi il “Molto vivace” riversa a ondate tutto lo stürmisch del massimo romanticismo tedesco, con una bellezza di timbri e un’intensità di scansioni ritmiche che non sentivamo di tal livello dai tempi d’un non dimenticabile concerto pur ceciliano di Carlos Kleiber (salvo che all’orchestra chiara e argentea di questi, Hrůša ne ha contrapposto una assai più fosca e bronzea).
Ed anche il Concerto in la minore di Schumann si è rivelato sin dall’attacco un esito fuor del comune: l’amistà d’intenti fra direttore e pianista è parsa come lungamente studiata, come architettata colore per colore, dinamica per dinamica, rubato per rubato. E proprio l’arte del rubato ha al fatto dominato l’intero programma: con una sua delibazione certo moderna, mai indugiata, ma presente e tale da conferire al dettato musicale sotto la bacchetta di Hrůša una fluidità naturale, un respiro organico, una varietà di disegno da noi immensamente preferita alla rigidità d’una lunga ideologia che da Toscanini stende ancor ad oggi le sue tetragone propaggini. Beatrice Rana è pianista sempre più matura e personale: il suo Schumann è assai diverso tanto da quello lieve e sognante di Mitsuko Uchida, quanto da quello imperioso e concreto di Martha Argerich. Il suo fraseggio è nobile, forse severo e però notturnamente poetico ad ogni battuta: e pensiamo a certe oasi di splendida, legatissima cantabilità, come alla tempestosa, formidabile cadenza del primo movimento.
Chiudeva il programma la Settima di Beethoven. Sinfonia forse tra le più “compromesse” da talune prassi esecutive che non si rassegnano a che l’Allegretto sia tale e non un Adagio o ad evitare, fin dal Vivace che segue il Poco sostenuto iniziale, una sorta di inarrestabile corsa all’abisso. Hrůša vede l’op. 92 soprattutto come un immane nucleo d’energia primigenia, come una raffigurazione sonora antesignana d’un Prometeo o d’uno Zarathustra, pensanti e danzanti con orgoglio, genio e libertà assolute. Il braccio di Hrůša (che ha uno dei gesti direttoriali più accattivanti oggi visibili su un podio) ha condotto tutto ciò con potenza e grazia, con cura continua dei dettagli e con una musicalità totale, sì che a tratti il suono pareva (si dice in gergo) “uscirgli dalla bacchetta” (come un tempo ammirammo in una Terza di Brahms diretta da Bernstein a Via della Conciliazione). Solo l’Allegro con brio finale è stato preso ad una velocità anche superiore al consueto, ma con una sorta d’ ebbra fisicità, tal da svelare un empito sensuale e a tratti orgasmico, che qui quasi mai avevamo riscontrato.
Inutile aggiungere che tutto ciò si può fare solo con un’orchestra ormai in totale sintonia col suo principale direttore ospite e d’un livello che ha del vertiginoso nella sequela d’ogni più audace istanza proposta dal maestro e nel lusso di prime parti o di sezioni che pochi complessi possono vantare.
Il pubblico alla fine è sembrato letteralmente esplodere in applausi e grida che si sono prolungate oltre ogni consuetudine.
Maurizio Modugno
Foto: ©Accademia Nazionale di Santa Cecilia / Musacchio, Ianniello & Pasqualini