CILEA Gloria A. Bartoli, F. Vassallo, C. Ventre, R. Chikviladze, A. Abis, E. Schirru, A. Frabotta; Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari, direttore Francesco Cilluffo regia Antonio Albanese scene Leila Fteita costumi Carola Fenocchio
Cagliari, Teatro Lirico, 10 febbraio 2023
Esattamente 25 anni fa (gennaio 1998) il Lirico di Cagliari, proponendo la prima esecuzione italiana (!) delle Fate di Wagner, iniziò una politica culturale che non si è mai interrotta sino ad oggi, nonostante vari cambi di sovrintendenza e di indirizzo artistico, ossia inaugurare la stagione con un’opera di rara o rarissima esecuzione e proseguire poi con titoli di grande repertorio. Negli ultimi anni, poi, l’orizzonte si è focalizzato su un ben preciso periodo, ossia quello del primo ‘900 italiano: ecco quindi che (e ne ho sempre riferito su questa rivista) abbiamo sentito Respighi (La campana sommersa e La bella dormiente), Refice (Cecilia), Marinuzzi (Palla de’ Mozzi) ed ora è stata la volta dell’ultima opera di Francesco Cilea, Gloria, che conobbe una prima esecuzione alla Scala nel 1907 e poi, ritoccata in vari punti, venne riproposta al San Carlo nel 1932 (ed è la versione ascoltata anche a Cagliari). Tratta da un dramma di Sardou (La haine) e aggiustata in un libretto che oggi fa sorridere in più punti da Arturo Colautti (librettista di Adriana e Fedora, cui nel programma di sala Paolo Patrizi dedica un interessante saggio), questa Gloria era finora ascoltabile solo in due edizioni discografiche: la prima, piuttosto attendibile, deriva da un’esecuzione alla Rai di Torino nel 1969, mentre la seconda (pessima) risale al 1998. La trama è facilmente sintetizzabile: l’ennesima riproposizione del tema di Romeo e Giulietta, ma in quella salsa finto-medievale (siamo nella Siena del Trecento) che tanto piaceva all’opera italiana di quel periodo (da Francesca da Rimini a Isabeau, dalla citata Palla de’ Mozzi a numerosissimi altri titoli: e lo stesso Colautti scrisse anche il libretto di Paolo e Francesca di Luigi Mancinelli). L’opera, nella sua prima versione, precede di sette anni il capolavoro di Zandonai, che sembra riecheggiare alcuni topos di questa opera: i bordoni falsoantichi dell’accompagnamento, i cori pseudo madrigaleschi, la preziosità dell’orchestrazione, le scene a due tra soprano e mezzosoprano (qui Gloria e la Senese) e in genere quel clima liberty, estenuato che in Cilea — si dice solitamente — si unisce ad una raffinatezza di scrittura di derivazione francese, mentre in Zandonai trova una (superiore) maturità e originalità di linguaggio grazie anche all’influsso decisivo del libretto di d’Annunzio. Non tutto funziona, in questo estremo cimento teatrale del compositore calabrese, ma sia la breve durata della partitura (90 minuti circa), sia la grande qualità della scrittura orchestrale fanno perdonare una certa genericità nel tratteggio dei personaggi e una drammaturgia non esente da momenti deboli: e, paradossalmente, la grande qualità dell’esecuzione cagliaritana ha portato ancora più alla luce proprio questi difetti.
Francesco Cilluffo, che come nessun’altro direttore odierno ha il gusto per le rarità di repertorio e la capacità di portarle alla luce con cultura e sensibilità musicale, trova quel perfetto punto di equilibrio tra enfasi teatrale e sottolineatura del preziosismo orchestrale che è l’unica chiave per rendere — oggi — questo tipo di opere. L’enfasi debordante del personaggio di Bardo de’ Bardi (il fratello di Gloria), gli squilli esaltati della figura tenorile di Lionetto de’ Ricci, le estenuate volute melodiche della protagonista convivono, nella lettura di Cilluffo, con perfetta consequenzialità; la gestione dell’ampio organico orchestrale (spesso arricchito da gruppi di strumenti fuori scena, fra cui persino, nel terz’atto, un “pianoforte o arpa con la carta tra le corde”: che Cilea volesse anticipare il luthéal raveliano di L’enfant et les sortilèges o addirittura John Cage?) è impeccabile, così come il supporto ai cantanti, mai soverchiati nelle loro difficili tessiture. E la prova dei complessi cagliaritani è stata davvero encomiabile.
Dal punto di vista vocale, note molto liete: Anastasia Bartoli possiede uno strumento di rara ampiezza e potenza, una di quelle voci “verticali” che arrivano in ogni angolo della sala, ed è apprezzabile il suo continuo gioco di sfumature, di accenti e di colori, spesso davvero suggestivi. Ancora da rifinire mi pare, invece, la gestione dei fiati, con troppi respiri presi — anche se con mestiere — in punti che spezzavano la frase musicale: ma la prova resta del tutto positiva. Il veterano Carlo Ventre ha lo squillo e la robustezza in acuto che la sua parte richiede, così come Franco Vassallo ha l’esatto colore e l’emissione un po’ rude ma efficace che immaginiamo per un ruolo da villain.
La regia era affidata ad Antonio Albanese, forse per il richiamo che un artista così noto avrebbe potuto garantire: con le scene praticamente fisse di Leila Fteita (un’ampia gradinata ad anfiteatro), e dei richiami nei costumi del coro al folklore sardo, lo spettacolo si presentava dignitoso nella sua semplicità, ma certo piuttosto schematico ed elementare nella recitazione, affidata al mestiere degli artisti. E in un titolo così raro e raffinato, secondo me non bastava.
Nicola Cattò
Foto: Priamo Tolu