SKRJABIN Rêverie op. 24 MOZART Exsultate, jubilate mottetto in fa maggiore per soprano, 2 oboi, 2 corni, archi e organo KV 165; “Et incarnatus est” dalla Messa in do minore KV 427; Sinfonia n. 41 in do maggiore Jupiter KV 551 soprano Rosa Feola Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, direttore Riccardo Muti
Ravenna, Rocca Brancaleone, 21 giugno 2020
C’era un clima particolare, per il primo concerto di Ravenna Festival, ieri sera alla Rocca Brancaleone: pur nella puntigliosa applicazione delle ormai ben note regole di distanziamento sociale, le ampie dimensioni del cortile della fortezza cinquecentesca consentivano una presenza di pubblico tale da non rendere il colpo d’occhio avvilente o sconfortante. Eppure la circospezione era evidente: il silenzio, l’assenza della dimensione sociale del partecipare ad un evento di spettacolo rendeva la serata da una parte intensa, quasi commovente, e dall’altra leggermente surreale. Lo stesso Maestro Muti, che ha introdotto il concerto con poche, semplici parole, del tutto prive di retorica, ha sottolineato — dopo l’esibizione, incontrando noi giornalisti — come questa serata sia stata, sì, un segno di rinascita, ma che il problema di garantire un futuro professionale solido a musicisti italiani di eccezionale valore, quali quelli della Cherubini, non nasca certo con l’emergenza del Covid, che semmai ha accentuato i problemi preesistenti. E si spera che l’ampia rappresentanza politica (locale, regionale e governativa) presente in platea, abbia colto il messaggio. Una serata, ha sottolineato Muti, ricca di coincidenze che possono essere di buon auspicio: Ravenna, città che ospita ben 8 siti Unesco (e un alto rappresentante dell’organizzazione era in platea), si prepara alle celebrazioni dantesche del 2021, mentre l’anno in corso è quello segna i 500 anni dalla morte di Raffaello. In più, il 21 giugno è la data della festa della musica e coincide col solstizio d’estate: inevitabile, quindi, aprire con quella Rêverie di Scriabin (già proposta come bis nella recente tournée europea della Chicago Symphony Orchestra) che ha il senso di un risveglio da un sonno troppo a lungo protratto. E l’esecuzione, rispetto a quella con i blasonati musicisti statunitensi, guadagnava in nettezza di articolazione laddove perdeva in velluto sonoro.
Venendo all’esecuzione, qualsiasi giudizio o descrizione va calibrato alle condizioni cui l’orchestra era costretta: gli archi vedevano un suonatore per leggio (con i conseguenti problemi di “voltate” di pagine), distanziati così tanto che fra l’ultimo dei primi violini e i contrabbassi c’erano molte decine di metri; i fiati, invece, erano protetti da barriere di plexiglass, e il suono ridiffuso in platea tramite piccoli altoparlanti, in modo certamente eccellente, ma altrettanto sicuramente poco naturale. Per ora si deve fare così: speriamo che queste restrizioni cadano presto. In queste difficili condizioni acustiche, Muti ha riproposto il suo Mozart di stampo squisitamente italiano, morbido nel fraseggio, continuamente contrastato in un’ambiguità di sentimenti e idee che è il tratto più sfuggente, eppure più precipuo di questa musica davvero divina. Repertorio sacro, con l’Exsultate, jubilate e la celebre aria “Et incarnatus” dalla Messa in do minore, affidati alla voce di Rosa Feola, anch’essa impeccabile nei colori vellutati, capace di perfezione di legato e di apprezzabile esattezza nella coloratura (solo i trilli non erano nitidi come si auspicherebbe), oltre che di un coinvolgimento emotivo davvero palpitante.
Ma la sacralità mozartiana traluce anche dall’estrema sua sinfonia, la Jupiter: capolavoro di ombre e punti di domanda, nascosti sotto la scienza contrappuntistica del movimento finale, costituisce sfida davvero ostica per un’orchestra, tanto più in queste condizioni acustiche. Con un suono piuttosto nervoso e secco, ed un uso parco del vibrato, Muti ha badato all’architettura generale, più che ai dettagli interni: e l’apollineo equilibrio di un Mozart lontano da isterie e esagerazioni ha naturalmente convinto. Ravenna riparte, quindi, così come tantissimi festival e associazioni concertistiche italiane: un simbolo di resilienza, forse, e certamente una nuova speranza.
Nicola Cattò
Crediti fotografici: Silvia Lelli