GIORDANO-FRANCHETTI Giove a Pompei D. Bruera, A. Bonfitto, S. Vitale, C.Caputo, M. D’Apolito, F. Pittari, I. Proferisce, G. De Pace, O. Tagliatela Scafati; Orchestra del Conservatorio &U. Giordano& di Foggia, coro Lirico Pugliese, direttore Gianna Fratta regia Cristian Biasci scene F. Gorgoglione costumi D. Pecorella
Foggia, Teatro Umberto Giordano 5 maggio 2017
Il centocinquantenario della nascita di Umberto Giordano non poteva passare sotto silenzio. A ricordarsene quest’anno con l’Andrea Chénier sono stati l’Opera di Roma, la Scala (prossima inaugurazione di dicembre), il Teatro Colon di Buenos Aires e quello di Hong Kong. Ma il piccolo Teatro Giordano di Foggia, il più antico della Regione, a due passi dalla sua casa natale bombardata durante l’ultima guerra dagli anglo-americani (ne rimane solo una lapide in memoria) ha fatto di più. Forte di una rinascita dopo circa dieci anni di silenzio, non solo ne ha rieseguito lo Chénier, ma ha anche coraggiosamente riportato alla luce in prima rappresentazione moderna la commedia musicale in tre atti Giove a Pompei, scritta da Giordano a quattro mani con Franchetti su libretto di Illica e dell’insigne grecista Ettore Romagnoli, andata in scena all’aperto con i costumi di Caramba ed effetti pirotecnici finali al Teatro Pariola il 5 luglio 1921, alla vigilia della fatidica Marcia su Roma.
La sola partitura orchestrale a stampa rimaneva negli archivi storici di Casa Ricordi, ma a resuscitarla era necessaria una lodevole operazione di recupero. Del resto l’opera non aveva riscosso all’epoca grandi successi, suscitando perplessità nello stesso editore milanese, che la trovava già datata al suo apparire (era stata in cantiere sin dai primi anni del secolo). L’impressione è che in questo sconfinamento nel teatro “leggero” (non diversamente da La rondine di Puccini nel 1917 o dalle Maschere o dal Sì di Mascagni, rispettivamente del 1901 e del 1919) sia i librettisti che i musicisti si dimostrassero troppo dotti e colti. Insomma niente a che vedere né con i più facili modelli nostrani di Lombardo, Ranzato o Costa, né con quelli celebrati d’oltralpe (Offenbach) alla cui parodia della antica mitologia sembrano pur ispirarsi (La belle Hélène). Né bisogna dimenticare la fortuna cinematografica riscossa in Italia in quegli anni (tra 1908 e 1913) dal romanzo inglese Gli ultimi giorni di Pompei (1834) di Edward George Earle Bulwer-Lytton, ispirato ad una tela del pittore russo Karl Briullov che aveva visto a Milano. Ma l’argomento aveva già sedotto persino Pacini nel lontano 1825.
La vicenda si svolge infatti un una Pompei ignara e godereccia, in cui la truffa (come quella di Totò che mette in vendita la Fontana di Trevi) è all’ordine del giorno. Parvolo Patacca (ruolo comico, all’epoca del capo-compagnia), che qui assume i tratti del ridicolo e goffo Nerone petroliniano, si arrabatta a vendere cimeli taroccati come il biberon di Romolo e Remo, lo zoccolo del cavallo Pegaso, l’elmo di Brenno e simili. Per consentire vita florida alla città campana progetta, in un momento particolarmente fertile per gli scavi archeologici, di fare a pezzi le statue degli Dei (Giove compreso) e falsificarle rendendole antiche con un bagno nella lava al fine di propinarle al Faraone egizio in arrivo (con tanto di aforistica citazione della Marcia trionfale di Aida).
Ma la cosa irrita comprensibilmente Giove che scende in terra con l’aquila e insieme al fido ma furbo Ganimede per punire gli iconoclasti pompeiani. Lo stratagemma di autodifesa, viste le doti di donnaiolo del sommo tra gli Dei, è quello di mettergli a disposizione le donne della città per ingraziarselo (elemento già parso all’epoca imbarazzante e quasi pornografico). Ma Giove si innamora dell’innocente contadinella Lalage, che è però in amore col miles gloriosus Aribobolo, appena tornato dalle campagne militari d’Africa. Scopertosi ingannato, però, Giove ordina allora a Vulcano di distruggere la città con l’eruzione del Vesuvio, non prima di aver consentito però ai cittadini (convertito alla fine a più miti consigli da una pozione magica) di mettersi in salvo.
Corre l’obbligo innanzitutto di applaudire alla ponderosa iniziativa ed allo sforzo produttivo (oltre cento persone impegnate tra orchestra, cantanti, coro, corpo di ballo e figuranti). L’operetta forse non convince appieno musicalmente, perché le cose migliori sono le arie patetiche di Lalage (la duttile Daniela Bruera), che la mamma ha mandato sola in città con molte raccomandazioni, e la comicità è per lo più accentrata nelle parti recitate più che in quelle musicali salvo qualche coro (di pompieri, di reduci, di ancelle) o duettino. Il giovane cast tuttavia ha dimostrato grande professionalità ed impegno sotto la guida musicale energica ma sorridente di Gianna Fratta e con la regia briosa e mai sovraccaricante di Cristian Biasci. Ottime le caratterizzazioni del cicerone Macrone, che dispensa indicazioni strampalate, oltre che dell’onnipresente Patacca Matteo D’Apolito), colorito artifex dell’azione.
L’opera meriterebbe ora di una effettiva e più ampia circuitazione come documento d’epoca, di un’Italietta che stava per imboccare il binario senza ritorno del Ventennio. Intanto se ne produrrà un dvd.
Lorenzo Tozzi