RECITAL DI JOSÉ CARRERAS musiche di Scarlatti, Costa, Puccini, Tosti, Leoncavallo, Guastavino, Nacho, Elgar, Vives, Grieg, Mascagni, Valente, Rendine; pianoforte Lorenzo Bavaj Quartetto d’archi della Scala (violino Francesco Manara, Daniele Pascoletti viola Simonide Braconi violoncello Massimo Polidori) tenore José Carreras
Milano, Teatro alla Scala, 30 luglio 2015
Una settimana dopo il gran ritorno di Edita Gruberova, la Scala ha accolto con travolgente affetto uno dei suoi “figli” più amati, che non vi si esibiva dal 2010 (un concerto semi-privato con la Filarmonica): al solo apparire del tenore quasi 69enne, visibilmente stanco – perfino nel passo leggermente incerto – è scattato un lunghissimo applauso, che aveva in sé un misto di gratitudine, nostalgia, senso di inclusione. La sensazione è che la parte musicale, soprattutto quella ufficiale prima dei bis, fosse alla fin fine quasi inutile: il pubblico della Scala celebrava il ricordo del José Carreras di una volta, del superbo Alvaro e Don Carlo. Sarebbe ovviamente stupido rilevare come la voce di Carreras sia ormai limitata a un pugno di note del registro centrale, con gli acuti praticamente assenti: stupido e inutile perché, da una parte, il tenore sceglie un repertorio cameristico da lui perfettamente dominato a livello stilistico, ancor prima che vocale, e dall’altra perché è molto più utile, ed emozionante, godere quello che Carreras offre ancora. Invece del solito pianoforte solo (il bravissimo, fraterno accompagnatore di José da cinque lustri, ossia Lorenzo Bavaj), la Scala ha messo a disposizione anche il proprio Quartetto d’archi titolare, presente in tutti i 26 brani eseguiti (compresi i 7 bis, e contando anche i quattro solo strumentali), che ha dato prova di somma intelligenza nella flessibilità nell’accompagnare il canto, capendo quando era il caso di “ritirarsi” nelle sonorità, con quella elasticità che è proprio solo dei musicisti di una grande orchestra d’opera. E poi, che piacere sentire brani ad altissimo “rischio-kitsch” come Salut d’amour di Elgar, o anche l’Intermezzo dalla Cavalleria risolti con tale freschezza, tale semplicità espressiva (per il terribile Valse coquette di Leoncavallo, invece, nemo ad impossibilia tenetur)! Si respirava nella prima parte del concerto, formata dallo Scarlatti “tostizzato” di “O cessate di piagarmi” e da melodie da camera dello stesso Tosti, di Costa e di Puccini, quel clima dei salotti romani della fine ‘800 che il giovane d’Annunzio così bene raccontava nelle sue Cronache romane: un’atmosfera crepuscolare, fanée, intima, sentimentale. E Carreras mette in campo la sua classe infinita, fatta di una dizione scandita, di una nobiltà del fraseggio che è schermo ad ogni tentazione di sentimentalismo, alla capacità di supplire all’evidente mancanza di freschezza (penso a “La Serenata” di Tosti) con la raffinatezza di insistere su una parola, su una consonante, di aggiungere un rubato o un ritardando. E anche la seconda parte della serata, un misto di brani ispanici, catalani e napoletani ha confermato questa atmosfera di serena nostalgia verso un mondo, un modo di cantare che forse sta sparendo: come che sia, il pubblico è scattato in piedi subito dopo la fine di “Vurria”, ultimo brano previsto in programma, ed è iniziata la terza parte della serata, 45 minuti di continue standing ovation, lanci di fiori e ben sei bis, fra canzoni napoletane (“Core ‘ngrato”, “Vierno”, “Me so ‘mbriacato ‘e sole”, “Dicitencello vuje”, “Torna a Surriento”), la tostiana “Vucchella” e musica da film. Con il pubblico in piedi a invocarlo, Carreras appariva, alla fine, quasi scosso dall’enormità del successo: forse perché, e lo sapevamo tutti, aveva il triste sapore di un addio.
Nicola Cattò