PUCCINI Tosca A. Netrebko, F. Meli, L. Salsi, C. Bosi, A. Antoniozzi, C. Cigni, G. Mastrototaro; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Davide Livermore scene Giò Forma costumi Gianluca Falaschi luci Antonio Castro video D-wok
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2019
Scrivere dell’inaugurazione scaligera non è esercizio facile: non lo è perché il diluvio di commenti social dalla varia attendibilità, di siti e sitarelli che proliferano come funghi, di un’attenzione pubblica assolutamente imparagonabile a qualsiasi altro evento culturale italiano, rende davvero faticoso esprimere un giudizio meditato e sincero. Ma anche perché al sette dicembre la Scala non mette in scena un’opera: mette in scena, e presenta al mondo, l’immagine di sé che possa essere più esportabile possibile, chiarendo anche quale sia il senso della missione culturale della propria direzione artistica e musicale. Ma rimango al primo aggettivo: “esportabile”. Le regie di quasi tutte le ultime inaugurazioni condividevano un tratto comune: una evidente spettacolarità, lo sfarzo reso possibile da budget non comuni e da una macchina scenica – quella della Scala – che si avvale di maestranze di assoluta eccellenza e di tecnologie all’avanguardia, uniti all’evidente timore di andare oltre uno spettacolo assolutamente tradizionale, pur ammantato di una spolverata di finta novità: questo valeva per la Butterfly di Hermanis, per lo Chénier di Martone (che però era assai poco “spettacolare”), e lo stesso ha fatto Livermore nell’Attila dell’anno scorso e in questa Tosca. Una regia cinematografica, ha detto lo stesso Livermore: può darsi che in televisione rendesse benissimo, ma il continuo ruotare di cappelle, colonne e transetti di Sant’Andrea della Valle dava francamente il mal di mare (oltre ad avere costretto il Maestro Chailly a riprendere un attacco per problemi scenici), né era sempre chiaro il senso del sollevamento dell’intero palcoscenico, che se certamente impressionava nel Te Deum finale, che veniva ancora più visto dalla prospettiva di uno Scarpia dominante, non convinceva affatto nel secondo atto, nel quale il mostrare la tortura di Cavaradossi è stato un errore imperdonabile. Tanta gente in scena, forse troppa: suorine sempre affaccendate, sgherri di Scarpia che bullizzano Spoletta (perché?), una terrazza di Castel Sant’Angelo in cui la solitudine di Cavaradossi si sarebbe cercata invano. E anche tratti francamente grotteschi, come l’avere costellato la stanza di Scarpia a Palazzo Farnese con quadri digitali in movimento, che a tanti cinefili non potevano non ricordare – perdonateci la battuta – Harry Potter. Il terzo atto, in ogni caso, mi è parso il più riuscito, perché visto come una specie di delirio onirico: le colonne della chiesa a destra, le finestre di Palazzo Farnese sullo sfondo, e in mezzo una gigantesca ala, evidente richiamo della statua di Peter Anton von Verschaffelt che troneggia sulla terrazza del complesso romano. E qui Tosca e Cavaradossi appaiono già presaghi del loro destino di morte, la prima piangendo la morte dell’amato senza neanche guardare la “finta” fucilazione, fino ad una specie di assunzione finale, che serve anche a coprire visivamente la coda orchestrale più lunga, secondo la versione scelta da Chailly, sulla quale si sono versati fiumi di inchiostro.
Da parte sua, Riccardo Chailly firma non solo una direzione magistrale, ma torna ad affermare le proprie ragioni di sublime pucciniano dopo l’interlocutoria Manon Lescaut: una concertazione analitica, tesa, affilata, che nulla concede alla facile cantabilità, almeno fino al “Vissi d’arte”: qui tutto cambia, e Chailly ne sottolinea benissimo la natura di “a parte”, di sospensione temporale. Attento alle esigenze dei cantanti, il Maestro milanese ha messo in mostra, grazie anche all’apporto di un’orchestra favolosa, un lavoro di studio e di ripensamento totale della notissima partitura: meravigliosi, in tal senso, i momenti sinfonici, con un’alba romana illividita e quasi spettrale (mille miglia lontana dal sontuoso Barocco di Karajan), ma anche l’elasticità del secondo atto, con le improvvise accensioni drammatiche che mai si tramutavano in pura violenza fonica. E se le “famose” 8 variazioni proposte in questa versione possono essere discutibili, è stato prezioso il poterle ascoltare per una volta, per poi magari tornare rasserenati alla lectio consueta.
Quanto al cast, difficile ipotizzare qualcosa di meglio. In testa a tutti Francesco Meli, un Cavaradossi giovane e passionale, capace di squisite mezzevoci e acuti sfolgoranti (il “Vittoria” avrà fatto la gioia dei loggionisti), con una cura della dizione ed una eloquenza del fraseggio che hanno convinto completamente: l’intelligenza e la cura stilistica del tenore genovese erano ben noti, ed è splendido ammirare come la sua carriera, iniziata con Rossini e Mozart, progredisca con la coerenza possibile solo a chi sa coniugare tecnica sicura e la scintilla del grande artista. Scarpia non sarà forse la parte ideale per Luca Salsi, la cui voce è essenzialmente morbida e delicata, ma la sua prova ha stupito: anche qui, grazie al lavoro certosino con Chailly, il suo personaggio ha giganteggiato per cura dei dettagli, per omogeneità del canto, in una dedizione totale che non ha mancato di affascinare il pubblico, che gli ha tributato, già dalla fine del secondo atto, vere ovazioni. E infine lei, Anna Netrebko, la diva par excellence: canta una parte certo non facile con la souplesse della grande diva, si riscatta all’istante da un piccolo errore testuale, e per il resto mette in scena un ritratto sfumato e lirico di Floria, senza mai cadere nel rischio della volgarità, convincendo in un “Vissi d’arte” da antologia (e la piccola incertezza all’attacco certo non muta il giudizio) e nello sfolgorare dei tanti Do acuti. Le manca, forse, la capacità – difficile per una russa, me ne rendo conto – di far lievitare il fraseggio dalle parole stesse, dal loro suono e dal loro significato: cosa fondamentale in Puccini, se si pensa ad una pagina come “Non la sospiri la nostra casetta”, passata via un po’ troppo superficialmente. Grazie anche all’apporto di comprimari extralusso come Carlo Bosi (Spoletta) e, soprattutto, Alfonso Antoniozzi (un Sagrestano straordinario, capace di un’arte della parola degna del miglior attore di prosa), questa Tosca “da sette dicembre” ha avuto un epilogo trionfale: grande musica, certamente, ma per il grande teatro è forse meglio evitare Sant’Ambrogio, anche per lo stesso Livermore il quale a Milano, lontano dai fasti decembrini, aveva firmato un Don Pasquale e soprattutto un Tamerlano ben altrimenti memorabili.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano, Teatro alla Scala