GIORDANO Andrea Chénier Y. Eyvazov, A. Netrebko, L. Salsi, A. Stroppa, M. Pentcheva, J. Kutasi, G Sagona, C. Finucci, C. Bosi, G. Breda, F. Verna, M. Pierattelli; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Mario Martone scene Margherita Palli costumi Ursula Patzak
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2017
In un acuto saggio, contenuto nel volume a cura di Johannes Streicher (Ultimi splendori), imprescindibile per approfondire seriamente il tema dell’opera verista-naturalista e, in ispecie, le figure di Cilea, Giordano e Alfano, Susanna Franchi notava come nove mesi esatti dopo la prima scaligera dell’Andrea Chénier (28 marzo 1896), a Parigi, al 14 di Boulevard des Capucines, si svolgeva la prima proiezione pubblica cinematografica: ed è proprio il mondo, l’estetica del cinema, assieme a quella del feuilleton, a connotare più di tutte l’opera di Umberto Giordano, che Riccardo Chailly ha scelto per l’inaugurazione della stagione 2017/18, riportandola alla Scala dopo ben 32 anni (l’ultima volta, come è noto, era stato lui stesso a dirigerla). E, con apparente ottima ragione, per metterla in scena ha scelto un regista strettamente legato al cinema, Mario Martone, che due anni fa aveva già fatto i conti con la musica del compositore pugliese allestendo, sempre a Milano, e sempre con Margherita Palli come scenografa, La cena delle beffe, e ripensandone ex novo la drammaturgia, con un efficacissimo spostamento di ambientazione nella Little Italy degli anni ’20 e ricreando un ritmo narrativo a dir poco mozzafiato. Anche per questo non si può che sottolineare l’inefficacia di questo nuovo spettacolo: fedele a luoghi ed epoche narrate dal libretto, la scena consta di un grande praticabile girevole (un “carillon”, come è stato definito), che nel primo atto (il più riuscito) rappresenta una grande cornice/specchio, che deforma ironicamente le gavotte e i minuetti di corte in rozzi, aggressivi balli dei miserabili che poi faranno irruzione, mentre nei successivi dipinge in maniera piuttosto piatta i luoghi dell’azione. Ma i riferimenti alla rivoluzione, disseminati nel libretto e in partitura, non vengono sfruttati a dovere, l’enorme fondale nero che avvolge la scena è una facile scappatoia, ma soprattutto il lavoro vero e proprio di regia è piuttosto banale: vedere i cantanti che, nelle loro arie, avanzano al proscenio a braccia aperte a cantare è, nel 2017, del tutto sconfortante. Va benissimo, insomma, uno spettacolo “tradizionale”: ma qui ne mancava anche la pura bellezza estetica, sostituita da una imperdonabile genericità.
Chénier è opera da tenore, per il tenore: e i fucili erano tutti puntati su Yusif Eyvazov, il “signor Netrebko”, che alla fine dei conti ha superato la prova con molto decoro (ma che questo decoro abbia giustificato la proposta di questo titolo, è ovviamente tutt’altro discorso…). Il tenore azero è uno strano cantante, con evidenti pregi e altrettanto chiari difetti: la voce è di timbro ingrato, ma sonora e abbastanza omogenea nei centri e piacevolmente squillante negli acuti (dal La in su), con una dizione di esemplare chiarezza: bene dunque ha fatto — evidentemente di concerto con Chailly — a insistere su un fraseggio squisitamente lirico, quasi delibato parola per parola, con il chiaro modello di Beniamino Gigli (bene l’Improvviso, quindi); ma le note del passaggio, fino al Sol acuto, ballano non poco, come se fossero sottoposte a una forte pressione, figlia evidentemente di una tecnica ancora non risolta, e l’effetto è singolarmente sgradevole. Basta ascoltare, per avere chiari i termini di questa dicotomia, “Come un bel dì di maggio”: il Si bemolle finale (“il gelido spiro”) è ineccepibile, il susseguente Sol bemolle (“d’un uom”) strozzato e schiacciato. Innegabile, però, la musicalità dell’artista, il suo impegno e, alla fine, la bontà dei risultati: certo è che, nei duetti con la moglie, il diverso “peso” vocale era palese. La Netrebko debuttava nel ruolo di Maddalena: non essendo costei, per sua stessa ammissione, un’artista che raffina i suoi personaggi nei dettagli in fase di studio, ma che piuttosto si affida all’istinto, era avvertibile una certa prudenza espressiva, una tal qual genericità nel fraseggio (all’opposto, per dirne una, della iper-analitica Scotto nel disco con Levine). Ma la voce è incredibilmente opulenta, i centri e i gravi di uno sfarzo di altri tempi (tanto che secondo me dovrebbe alleggerire l’emissione in basso, per evitare spiacevoli sonorità), e lo sfavillìo della terza acuta semplicemente mirabile: una Maddalena appassionata, impetuosa, che certamente crescerà col passare delle recite (e che, nella “Mamma morta”, segue la scrittura originale di Giordano, ben più scomoda dell’alternativa presente in partitura, da quasi tutte le cantanti scelta). Al loro fianco, Luca Salsi era un Gérard di ottima prestanza fisica e vocale, che arriva un pochino stanco al finale del terzo atto (la perorazione in tribunale a favore di Chénier), ma che ha corpo, saldezza di emissione e solidità nel registro acuto, così sollecitato: un baritono all’antica, nella migliore accezione del termine. E di livello imperfettibile mi è parsa la folta schiera dei comprimari, segno della cura con cui la Scala ha preparato questo spettacolo: dall’Incredibile di Carlo Bosi, un prodigio di intelligenza e bel canto, alla Bersi della sempre meravigliosa Annalisa Stroppa, dall’esperienza di Mariana Pentcheva come Contessa al sonoro, affidabile Roucher di Gabriele Sagona. Dal podio, emergevano in maniera evidente l’amore e la profonda conoscenza che Riccardo Chailly ha per questa partitura, del tutto ripensata rispetto all’incisione Decca con Pavarotti e alle già ricordate recite degli anni Ottanta: una lettura che cercava costantemente la trasparenza sonora, la chiarezza delle voci interne, la raffinatezza strumentale (ad esempio, il colore tutto diverso fra le prime due strofe dell’ultima aria del protagonista), e che prediligeva tempi molto comodi, a volte fin troppo (“Nemico della patria” perdeva di incisività, secondo me). Chailly, poi, al di là di qualche eccesso fonico nelle scene di massa (ma l’acustica della Scala rende difficile dare giudizi troppo netti), sosteneva con ammirevole cura i solisti, specie il tenore, spronando e suggerendo: uno Chénier, quindi, piuttosto inedito, tra l’altro suonato benissimo da un’orchestra in grande forma.
Dieci-undici minuti di applausi, riferiscono le cronache: un successo caldo e unanime, cui ha nuociuto un’evidente e insistente presenza della claque a favore di Eyvazov la quale, come sempre, ha scatenato la ripicca di numerosi spettatori del loggione, che hanno replicato con “buu” sonori. Peccato: il tenore azero si era conquistato stima e ammirazione con la sua prova, poteva fare a meno del sostegno esterno. Una serata quindi complessivamente riuscita: appuntamento al 7 dicembre 2018 con l’Attila, che sostituisce — purtroppo — i già annunciati (almeno ufficiosamente) Vêpres siciliennes.
Nicola Cattò
Immagini: Brescia/Amisano, Teatro alla Scala