WEILL Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny I. Vermillion, D. Kerschbaum, W. White, M. Brueggergosman, B. Gunnell, C. Lemmings, E. Greene, N. Davies, C. Pieretti, M. Spatafino, C. Varela, G. Ferraresso, M. Nardella, S. Pasini. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma direttore John Axelrod regia Graham Vick scene e costumi Stuart Nunn movimenti coreografici Ron Howell luci Giuseppe Di Iorio
Roma, Teatro dell’Opera, 6 ottobre 2015
Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e Caduta della Città di Mahagonny), l’unica opera in senso stretto (ossia interamente in musica pur se con qualche breve momento parlato ed con impiego di Sprechgesang) di Kurt Weill su libretto di Bertolt Brecht, ha avuto un percorso complesso tanto in Germania quanto in Italia. L’edizione definitiva in tre atti è del 1930, ma la prima di Lipsia era stata preceduta da un Songspiel presentato al festival di musica da camera di Baden-Baden del 1927. Allora, l’opera destò tanto scalpore che Joseph Goebbles la incluse tra la musica degenerata e fece bruciare tutte le copie della partitura. Negli Stati Uniti, dove si erano rifugiati, Weill e Brecht la ricostruirono sulla base della loro memoria e di alcuni appunti e la misero in scena in un’edizione in inglese, pensata più per Broadway che per i grandi teatri d’opera, pure quelli più innovativi come il Lyric di Chicago. Quindi, con orchestrazione ristretta, e l’opera viene rappresentata di frequente, non solo in Germania. Negli Anni Sessanta, in Italia ebbe successo e suscitò polemiche un’edizione in italiano curata da Giorgio Strehler e presentata in vari teatri; quasi in parallelo venne proposta alla Piccola Scala in una traduzione curata da Fedele d’Amico. Negli Anni Ottanta venne scoperta a Dresda l’edizione andata in scena a Lipsia e quindi rappresentata nel 1988 in edizione critica
Dieci anni fa, Mahagonny venne presentata dall’Opera di Roma (al Teatro Nazionale) in una coproduzione con i teatri di Reggio Emilia, Bari e Messina basata solo in parte sull’edizione critica. Non ha lasciato un grande ricordo. In effetti, quella del 6 ottobre deve essere considerata la prima in Italia; la si vedrà anche alla Fenice ed al Palau de Les Arts Reina Sofia di Valencia (che la co-producono). Posso raffrontarla con l’edizione critica che vidi due volte, a Ginevra nel 1992 (era la prima dell’edizione critica in Svizzera) e con quella in repertorio alla Komische Oper di Berlino dove la produzione è in repertorio da circa dieci anni.
Sarà utile ricordare che Mahagonny è un apologo dell’ascesa e del crollo del capitalismo che, negli Anni Trenta, appariva ad artisti fortemente ideologizzati come Brecht e Weill più graffiante di quanto non lo sia oggi. Tre malviventi in fuga creano una città dove tutto è permesso, tranne non avere denaro; la nuova città (Mahagonny) attira delinquenti, prostitute, avventurieri, cercatori d’oro, e via discorrendo; Jim Mahoney è condannato all’impiccagione non per avere assassinato e derubato, ma per non avere saldato un debito di gioco; proprio il giorno dell’impiccagione una rivolta spazza via Mahagonny ed i suoi abitanti. I tre atti (per una durata complessiva di circa due ore) sono suddivisi in 20 brevi quadri, con forti intenti didascalici (in linea con la concezione di “teatro epico” di Brecht). Non è mai stato chiaro quanto la visione di Weill coincidesse con quella dell’autore del testo: mentre per Brecht il fulcro sarebbe dovuto essere un idioma musicale basato su singole “canzoni”, la scrittura di Weill insiste sui nessi tra i numeri per dare al tutto una propria integrità, differente da quella delle singole “canzoni”.
Nel’edizione ginevrina (regia di Kurt Josef Schilknet; direzione musicale di Jeffrey Tate) l’azione scenica richiamava il teatro epico brechtiano mentre la bacchetta raffinata di Tate addolciva le asperità della partitura, dando quasi un afflato favolistico al lavoro. Nell’edizione berlinese (regia di Andreas Homoki, direzione musicale di Martin Hoff; nei primi anni era un cavallo di battaglia di Kirill Petrenko), l’azione scenica è attualizzata in uno spettacolo molto rodato e pieno di ritmo; i cantanti, e specialmente il coro, sanno non solo recitare ma anche ballare. I tre atti vengono presentati in due parti, ciascuna con una scena unica (peraltro molto semplice); ciò contribuisce a rendere più rapida l’azione. D’altronde, lo stesso Brecht voleva che l’azione venisse adattata ai tempi ed ai luoghi dove veniva messa in scena; la regia di Homoki ha subito alcuni ritocchi dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Tanto la direzione musicale quanto la regia guardano più a Weill che a Brecht, perché oggi pure il teatro epico appare datato.
È in effetti ciò che fanno Graham Vick ed il suo team. Nel lavoro di Weill e Brecht il lasso di tempo dalla nascita alla distruzione di Mahagonny è relativamente breve. Nella regia di Graham Vick, invece, i tre giovani delinquenti del primo atto invecchiano; nel terzo atto hanno i capelli bianchi e uno di loro (piuttosto sexy al primo atto) è in carrozzella. Dopo l’esecuzione di Jim, la rivolta è dei giovani, stanchi e stufi di una società che offre loro solo la possibilità di mangiare, bere e fornicare. Nel 1928-30 Brecht e Weill erano due giovani trentenni che assistevano al disfacimento della Repubblica di Weimar. Il loro rappresentare tale disfacimento (con una musica, tra l’altro, piena di accenti ricavati dallo studio del jazz americano) non piacque ai nazisti. Ma – come bene interpretato da Vick – il lavoro tratta dell’utopia impossibile, soprattutto in una “città ideale” dove tutto è permesso (e dove tutto, dal sesso ai peccati di gola, è estremo), se si hanno i soldi.
Andiamo alla parte musicale. Alcuni colleghi hanno trovato moscia la bacchetta di John Axelrod; a mio parere, una direzione più stringata o un maggiore indulgere a ricche sonorità avrebbe fatto perdere di vista (per chi conosce il tedesco; per gli altri c’erano i sopratitoli) il superbo lavoro di fusione tra parole e note. E non avrebbe fatto percepire i motivi conduttori della partitura. Ottime le voci, specialmente gli interpreti principali, Iris Vermillion, sir Willard White, Measha Brueggergosman e Brenden Gunnell, nonché il gruppo di mimi-attori.
Giuseppe Pennisi