VERDI La Traviata M. Rebeka, A. Ayan, L. Nucci, C. Isotton, F.P. Vitale, C. Bosi; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Zubin Mehta
Milano, Teatro alla Scala, 15 settembre 2020
Dopo il fatidico 22 febbraio, data della prima (e ultima) del Turco in Italia, torna a risuonare alla Scala un’opera completa: non in forma scenica, ma con l’orchestra ben spaziata sul palcoscenico, il coro disperso in due metà ai lati (e quindi seminascosto) e i cantanti che improvvisano un minimo di azione, con un paio di sedie e un sofà per far morire la povera Violetta, dietro al direttore. Non certo una soluzione ideale, ma se pensiamo che la normalità avrebbe previsto l’ennesima riproposizione del decotto spettacolo della Cavani, non c’è molto da lamentarsi: per fortuna l’entusiasmo dello scarso pubblico – decimato dalle draconiane norme «di sicurezza» — ha saputo spazzar via la sensazione di gelo che accoglieva tutti una volta entrati nell’amatissimo teatro. Zubin Mehta, ancora fragile ma molto più in salute di qualche mese fa, parte con un bellissimo Preludio, tutto sfumato e legato, ma le cose buone finiscono lì: è solo il rispetto per un sommo artista quale egli è stato che mi vieta di calcare la mano sui tempi assurdamente lenti, senza che avessero alcun senso logico o drammaturgico, sull’indulgere ai soliti tagli e alle cattive abitudini in fatto di rallentandi o indugi fuori luogo, sul senso, insomma, di pigra, senile routine che dominava l’intera concertazione, e che ha tra l’altro portato a non episodici scompensi con orchestra e coro. Certo, la chiarezza della concertazione era esemplare, così come il risalto conferito a dettagli strumentali di solito trascurati: ma certo non bastava. Età simile a quella di Mehta denuncia Leo Nucci, altro beniamino del pubblico, per cui devo purtroppo ripetermi: la voce è ancora riconoscibile nel colore e salda negli acuti, ma la linea evidentemente non è ferma, il legato sdrucito (e la rinuncia a tutte le appoggiature in «Di Provenza» di fatto snatura il brano) e il fraseggio un qualcosa di già sentito mille volte. Ma non è solo questione di età: Atalla Ayan è un giovane tenore brasiliano di mezzi che si intuiscono generosi, ma non sa fornire al ruolo di Alfredo né raffinatezza di canto né perspicacia di intenzioni, accontentandosi di una solarità buona per tutti gli usi.
Detto dell’assoluta eccellenza dei comprimari (Francesca Pia Vitale, Annina, si è distinta già a Clip, il Concorso di Portofino presieduto da Meyer stesso), rimane Marina Rebeka, una Violetta semplicemente meravigliosa per la perfezione assoluta della vocalità (trilli, colorature, il Mi bemolle del primo atto, il continuo gioco piano/forte), per la dizione esattissima che è la chiave di volta di un fraseggio lirico, sfumato, sempre lontano da facili isterie, e per l’intensa femminilità di una Violetta sensuale, umana, attrattiva, esaltata poi dai costumi forniti da Dolce e Gabbana. Tanti i momenti memorabili, ma almeno due vanno ricordati: la cavata purissima, degna di uno Stradivari, nel concertato che chiude il secondo atto, dove la bellezza strumentale si fa ipso facto ritratto di un’anima dolente e nobile, e l’«Addio del passato», per fortuna presentato nella sua completezza, che è insieme un trattato di canto e di dolore rattenuto e intenso, senza mai che la grande artista lettone – lo ribadisco – debba ricorrere a trucchetti che il più delle volte celano problemi vocali. Per lei un meritato trionfo: quando la Scala si deciderà a affidarle quella Norma che manca scandalosamente del 1977?
Nicola Cattò
BEETHOVEN Sinfonia n. 9 op. 125 soprano Krassimira Stoyanova mezzosoprano Ekaterina Gubanova tenore Michael König basso Tomasz Konieczny Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, maestro del coro Bruno Casoni direttore Riccardo Chailly.
Milano, Teatro alla Scala, 16 settembre 2020
Quante esecuzioni favoleggiate della Nona sinfonia di Beethoven la nostra memoria collettiva di appassionati rammenta? Quella furtwaengleriana del 1942 (la cosiddetta Nona “del compleanno del Führer”), quella karajaniana del 1963 (per l’inaugurazione della Philharmonie di Berlino), quella bernsteiniana del 1989 (per la caduta del Muro di Berlino) per citare le prime tre che ci sovvengono.
Probabilmente la “Nona della pandemia” che abbiamo ascoltato ieri sera al Teatro alla Scala diretta da Riccardo Chailly non raggiungerà l’aura epica e mistica delle esecuzioni appena citate, ma per lo sforzo profuso dal direttore milanese, dall’orchestra scaligera e dal suo coro e, infine, dai quattro solisti di canti impegnati ne avrebbe sicuramente diritto. Dalla posizione rialzata in cui ci trovavamo (III ordine dei palchi sul lato sinistro) la visione della sala semivuota a causa delle regole sulla distanza interpersonale è già di per sé un’esperienza scioccante, ma per il musicista “praticante” che è in noi lo è ancora di più la disposizione dispersa dell’orchestra sul palcoscenico del teatro. Non è tanto il fatto che gli archi suonino ognuno con il proprio leggìo a colpire, bensì quanto la formazione orchestrale si estenda in profondità sul palcoscenico, contrariamente a quanto siamo abituati a vedere, e come il coro sia disposto (in punizione per così dire) sui due lati dell’orchestra (soprani e tenori a sinistra, mezzosoprani e bassi a destra) “coperto” dall’imboccatura del palcoscenico. Quante chiacchere inutili starete pensando arrivati a questo punto, ma in effetti la disposizione delle forze orchestrali, legata al rispetto delle norme sul distanziamento sanitario, ha una ricaduta sul suono talmente importante da risultare fondamentale.
Bisogna dirlo. Oggi dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala è un lavoro per direttori veri, non per controfigure che sfruttano l’alta professionalità dell’orchestra scaligera per portare a casa il risultato. Fortunatamente, il maestro Chailly è un direttore vero! Con l’attuale disposizione che vede gli archi sull’imboccatura della scena e tutti gli altri ben dietro di essa, dubito fortemente che legni e ottoni possano basarsi sul proprio udito per correggere eventuali imprecisioni di insieme ma debbano necessariamente affidarsi al gesto direttoriale che nel caso di Riccardo Chailly è tra i più chiari e sicuri del panorama direttoriale contemporaneo. Di suo il maestro Chailly è già un concertatore sensibile ai piani sonori orchestrali, ma ieri sera un ascoltatore attento e dall’orecchio capace di discernere i singoli suoni strumentali poteva usufruire di un’esperienza d’ascolto unica per trasparenza della tessitura orchestrale. Oggi è possibile sentire chiaramente, ben isolata, ogni singola linea strumentale all’interno della formazione orchestrale. Il classico suono compatto e luminoso che Riccardo Chailly trae dall’orchestra, ha perso parte della densità e dell’impasto ben conosciuti al pubblico. Un esempio eclatante è il breve “solo” dei violoncelli e delle viole (divise in tre linee strumentali) nell’ultimo movimento (Adagio ma non troppo, ma devoto) sulle parole Ihr stürtz nieder, Millionen: ieri sera dalla nostra posizione d’ascolto era praticamente possibile dire quale nota stava suonando ogni strumentista della sezione.
Purtroppo a fronte di questi “vantaggi” ci sono anche una serie di evidenti svantaggi. A differenza di trombe e tromboni, i corni avendo la campana girata in posizione opposta all’imboccatura del proscenio risultano un po’ “scomparsi in azione” (il solo di Giulia Montorsi nel terzo movimento è quasi inudibile fino a quando la strumentista resta nella parte grave della tessitura), anche il coro è vistosamente “schermato” con un’aggravante, nel caso della nostra posizione d’ascolto, nei confronti di soprani e tenori.
La forcella dinamica è un poco ristretta e l’orchestra non riesce a sfogare completamente la sua potenza d’emissione durante i passaggi di climax. Per quanto riguarda la scelta dei tempi, il maestro Chailly ha adottato metronomi scorrevoli (in particolare nel terzo movimento) ma non particolarmente spinti e ha caratterizzato lo Scherzo ripetendone l’esposizione dopo la sezione centrale in Presto.
Veniamo da ultimo al quartetto cantanti, solido ma non entusiasmante. Il soprano Stoyanova porta a compimento onorevolmente una parte che, scritta da Beethoven con le peggiori intenzioni, forse non si addice più alla sua voce. Anche il basso Konieczny paga una linea vocale che probabilmente non gli si addice completamente. Grazie alla posizione recessa del coro, per una volta, dal vivo, abbiamo potuto ascoltare l’Alla Marcia del tenore Michael König nella sua interezza, senza che la voce del povero solista venisse subissata dall’intervento del coro, e possiamo dire che il tenore tedesco-canadese non si è fatto trovare, per così dire a “corto di fiato”. Passerebbe quasi inosservata Ekaterina Gubanova, se solo non sapessimo che qui, come anche nella Missa Solemnis, fare tutto al meglio permette al cantante solista di scomparire nel disegno complessivo beethoveniano. Pur ringraziando tutti i musicisti coinvolti per la bella serata di musica, restiamo però in attesa di un ritorno alla Nona di Beethoven da parte del maestro Chailly e dell’orchestra scaligera in condizioni in condizioni meno di compromesso, quando, passate le necessità di protezione sanitaria, la disposizione dei musicisti sul già difficile palcoscenico scaligero sarà tornata alla normalità.
Riccardo Cassani