VERDI Messa da Requiem E. Buratto, E. Semenchuk, F. Demuro, A. Anger; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Daniel Oren
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 28 novembre 2019
“Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò l’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro […] essa è per sua natura una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione”. Così scriveva Giovanni Paolo II il 4 aprile 1999 nell’ormai famosa Lettera agli artisti. Tal suo passaggio ci è venuto in mente ascoltando (per la quantesima volta? chissà…) la Messa da Requiem di Verdi, in una serata a Santa Cecilia sotto la direzione di Daniel Oren. E altresì leggendo, nell’attesa, le note del programma di sala, firmate da Antonio Rostagno e intitolate Un Requiem laico di profonda spiritualità. In tali note l’illustre cattedratico con attenta, ma non esatta, perspicacia d’analisi, guarda al (poco interessante) agnosticismo della Strepponi e va in cerca (vana) di quello di Verdi, affermando, tra l’altro, che nel Libera me Domine conclusivo “nulla vi è di eroico né di luminoso: al contrario emerge qui in tutta la sua evidenza quella tragicità del mondo che ci ha accompagnato finora. E al tragico succede ancora il dubbio finale, quando il coro quasi impercettibile ripete l’invocazione Libera me, ovviamente senza alcuna risposta”. È da assai tempo che taluna esegesi “si vanta e se ne gloria” d’asserire il “laicismo” di certe partiture sacre – Mozart, Beethoven, Berlioz, Schubert, Brahms – con palese e assertiva precomprensione personale e/o ideologica. Premesso che nei casi dei compositori citati (e di non pochi altri) non si tratta di “musica liturgica”, ma di “musica sacra da concerto”; premesso che tal musica per ciò ha in sé profondamente impresso il carattere di libera riflessione, di meditazione soggettiva sul sacro — sia esso celebrativo o allelujatico, dogmatico o escatologico — ebbene, quale uomo (scriva o non scriva di musica) è senza dubbi, senza paure, senza domande sulle cose superne ed ultime? Certo anche quel Karol Wojtyla ora citato (basti leggere l’ultimo suo poema Dalla soglia). E Giuseppe Verdi da Busseto, meglio e più d’altri, reca a forma d’arte eccelsa proprio “l’appello al Mistero”, le domande fondamentali e terribili sull’Uomo e su Dio, facendosi “voce dell’universale attesa di redenzione”. Da questo a farne un nichilista, scusi professore, ce ne passa. Da questo a dire che Verdi non vive nella Messa da Requiem speranza alcuna, che il nulla finale è assoluto e tale perché da Lassù non gli risponde nessuno, ce ne passa ancor più. Ed è proprio il qui discusso Libera me a svelarlo. Con quella fuga energica e assertiva, scelta voluta d’una forma che è la convergenza degli opposti, la somma e proclamata certezza d’ogni sapienza musicale e filosofica. E con quella progressione inarrestabile, quell’esaltato vortice che attinge lento e inesorabile alla cuspide liberatoria fatta baluginare dal do del soprano. Luce di speranza, anche se solo intravista. Anche se speranza della speranza. Come possiamo darci l’arbitrio di negarla? Negare la speranza nella Messa da Requiem di Verdi è negarne l’essenza. Giustamente Rostagno ricorda che il Libera me Domine nell’antica liturgia era rubricato come “assoluzione”. E, con sua buona pace, è in tal senso che Verdi l’ha inventato una prima volta e poi una seconda: non nella certezza d’ottenerla, ma nell’atto di genuflettersi per chiederla. Umile, lui come tutti i veri geni, il dedicatario Manzoni compreso: “nui chiniam la fronte al massimo fattor” … Rifiutare il Mistero eloquente per dire che al suo posto c’è il Nulla muto, è il triste segnacolo del debole, esausto pensiero di questo tempo. Non di Verdi.
Crediamo che assai diversamente da Rostagno la pensasse comunque Daniel Oren, nel dirigere (al posto d’un Mikko Franck transfuga definitivo e sans regrets) una Messa da Requiem che ha innescato ondate irrefrenabili d’applausi e consensi. La sua lettura della partitura verdiana, tra le tante opzioni possibili, sceglie quella teatrale ad oltranza, quella infuocata sino ad una sorta d’invasamento profetico e apocalittico. Quasi si facesse spettacolo delle visioni deliranti di Gioele o d’Ezechiele o di Daniele, folte di turbe e di clamori e d’eventi soprannaturali. E d’una carne umana che violentemente rifiuta il proprio disfacimento. E tutto narrato con appassionato, viscerale slancio, con continua effusione di canto e di lirismo, more italico quanto di rado s’ascolta. Da piacer poco a taluna intelligentsia, certo; ma popolare e benvenuta, certissimo.
Complessivamente buono il gruppo delle voci in campo, anche se non sempre il direttore ha saputo piegare il proprio istinto alle loro naturali esigenze (ma l’ha mai fatto Oren?). Così la bella voce di Eleonora Buratto ci è parsa condotta per terreni non suoi, quasi a cantar da Aida, con dinamiche e sonorità estreme piuttosto che con eleganza e morbidezza, come ella è solita. Di modo che alcuni passi del Libera me Domine non sono stati quali s’attendevano. Salda come una roccia invece, Ekaterina Semenchuk ha svettato senza paura, squillante in alto, sonante e talora poitrinée in basso, ma al fondo severa e giusta. Uno dei maggiori mezzosoprani drammatici di oggi. Non possiamo che dir bene della smaltata voce tenorile di Francesco Demuro, impeccabile anche nei cimenti più impervi della parte. L’estone Ain Anger, wagneriano di casa nei maggiori teatri del mondo, portava alla stupenda linea vocale affidata da Verdi al basso, uno strumento possente e un po’ ruvido, con qualche tendenza a sfuggire dal controllo di Oren rallentando oltre misura. Favolosa la prestazione del Coro ceciliano e appena imprecisi taluni attacchi dell’orchestra, peraltro nelle repliche (ci si dice) ampiamente recuperati. Tornerà Daniel Oren a Santa Cecilia? Speriamo non dopo altri diciassette anni d’assenza…
Maurizio Modugno