BERLIOZ Le Carnaval romain, Harold en Italie MARTINŮ Les fresques de Piero della Francesca viola Pinchas Zuckerman Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Jakub Hrůša
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 8 febbraio 2024
Ogni concerto di Jakub Hrůša con quella compagine ceciliana che in parte è una sua orchestra, anzi al momento presente (con Pappano in fase di pur fulgente commiato e con Harding di cui all’orizzonte non si scorge neppur una ciocca dei suoi biondi capelli) crediamo forse ben più che “in parte”: ebbene, ogni suo concerto è un avvenimento che, pur in modi talor peculiari, s’afferma di non comune interesse e di sicuro stimolo culturale. Segnatamente per la proposta d’un repertorio nazionale slavo ch’egli oggi gestisce come forse nessuno: e che è sia un’apertura a quelli che Giorgio Vigolo chiamava i “pollini dell’Est” (e che sarebbe provinciale voler ignorare); sia un rinnovamento di programmi concertistici chez nous sempre più stabilizzati sull’Ottocento austro-tedesco e sul Novecento russo. Tuttavia Hrůša (forte dell’esperienza ormai non breve con i Bamberger Symphoniker) al Parco della Musica ha portato Mahler come Strauss, Schumann come Weber e Brahms, con risultati sempre a dir poco cospicui. L’approccio ad un autore francese come Berlioz è dunque inedito e ne attendevamo con qualche interesse l’esito. L’ouverture Le carnaval romain op. 9 ha subito mostrato che egli guarda al nume d’Oltralpe come al padre nobile d’ogni venturo grande sinfonismo, foss’anche germinato nel Sacro Romano Impero o nella Santa Russia. Ove mai va dimenticato quell’arrivo di Berlioz a San Pietroburgo nell’inverno del 1867 e l’imprinting lasciato dal vecchio maestro sui giovani musicisti della “scuola nazionale”, Balakirev e Rimskij-Korsakov in primis. È dunque pour cause che Hrůša ha mostrato un Berlioz non leggero e giocoso ovvero frivolo, ma potente e grandioso, quasi ad evocare di Roma sia la monumentalità, sia l’orgia coloristica, sia gli invasamenti bacchici d’antica ascendenza. Trascinante e personalissima lettura.
Abbiamo poi riascoltato con estremo interesse Les fresques de Piero della Francesca di Bohuslav Martinů, a noi già noti, ma in prima esecuzione nei concerti dell’Accademia. Si tratta di una delle partiture più fortunate di Martinů e ovviamente legata ad un suo viaggio in Italia nell’aprile del 1954, nel corso del quale il compositore visitò estasiato la Basilica di San Francesco ad Arezzo e vi ammirò il ciclo La storia della Vera Croce di Piero della Francesca. Rientrato a Nizza, tra il 20 febbraio e il 13 aprile del 1955 completò Les fresques,un’opera indubbiamente singolare nel suo catalogo. Presentata al Festival di Salisburgo del 1956 con i Wiener Philharmoniker diretti da Rafael Kubelik (cui il lavoro è dedicato), ha avuto esecuzioni e incisioni illustri, da Karel Ančerl ad Ernest Ansermet, da Charles Mackerras ad Andrew Davis e James Conlon. I tre pannelli che la compongono sono un Andante poco moderato (La visita della regina di Saba a salomone), un Adagio (Il sogno di Costantino) e un Poco allegro finale prende spunto da due affreschi diversi: quello in cui Costantino sotto il segno della Santa Croce sconfigge Massenzio, l’altro raffigurante la disfatta dell’esercito di Cosroe II, il re persiano che aveva rubato la Croce da Gerusalemme. Il primo movimento è strumentalmente sontuoso, non vi mancano tratti impressionistici e una ricca selva di temi, tra cui un brevissimo lacerto dalla Francesca da Rimini di Zandonai; il secondo evoca l’atmosfera nebbiosa e inquieta del sogno di Costantino; il terzo alterna un tema vigoroso ad un altro più meditativo affidato agli archi; poi la tensione si attenua gradatamente per giungere a un finale sereno. Martinů, dopo la première salisburghese, si lamentò d’alcune censure della critica che l’avevano accusato d’aver avuto a modello Ottorino Respighi. Accuse ingiuste forse, ma certo la Generazione dell’Ottanta gli era tutt’altro che sconosciuta e che qui se ne ritrovino i riflessi non è una diminutio per un lavoro che ha una bellezza e un’originalità d’altissimo lignaggio. Esaltate in modo esemplare dalla direzione fulgida e palpitante di Hrůša. Che di Martinů è peraltro uno specialista: l’integrale delle Sinfonie del compositore di Polička trasmessa di recente da Sky Classica lo ha avuto a protagonista (insieme al suo maestro Jiří Bělohlávek) e ad attento esegeta nelle interviste che facevano da guida al ciclo.
Grande attesa c’era, nella seconda parte del programma per la presenza di Pinchas Zuckerman (che mai ricordiamo d’aver udito nella Capitale), viola solista nell’Harold en Italie di Berlioz. Presenza tuttora carismatica forse come nessun altro nel suo strumento: riscaldata appena la mano, ha esibito un suono d’una bellezza e d’una potenza, d’un virile e talor ombroso lirismo da lasciar allibiti. Totalmente in sintonia con la lettura di Hrůša, che ha voluto ritrovare le radici byroniane della sinfonia berlioziana: nessun grand tour svagato e danzante, ma il pellegrinaggio ora incantato, ora scosceso, ora pieno di speranze, ora ripiegato sul proprio spleen di un maudit forse condannato a vagare per sempre. Suono orchestrale possente e dovizioso, tempi d’esaltante dinamismo, se del caso leggerezze dense di malinconia. Standing ovation alla fine per entrambi.
Tuttavia la grande Sala Santa Cecilia era tutto fuorché esaurita: per attrarre il pubblico romano ci vogliono quei due o tre nomi e quei cinque sei autori, se no si resta a casa davanti alla TV?
Maurizio Modugno