VERDI La traviata M.G. Schiavo, A. Poli, R. Frontali, E. Vacchi, F. Verna, F. Auriemma, A. Pellegrini, S. Fiore, V. Prando, G. Sorrentino, G. Oliveri, D. Locatelli; Coro e orchestra del Teatro Verdi di Trieste, direttore Enrico Calesso regia Arnaud Bernard scene Alessandro Camera costumi Carla Ricotti luci Emanuele Agliati
Trieste, Teatro Verdi, 8 novembre 2024
Siamo tutti precari. E questo stato di fatale provvisorietà, dell’assenza di punti di appoggio, di “anticamera” permanente, del momento di sgomberare le sale, sembra farsi pure tendenza generalizzata delle messinscene attuali. Incombe lo spazio vuoto che la tecnologia provvede a colmare di suggestioni. La gloriosa attrezzeria va in soffitta o la si immagina imballata e arrotolata pronta per l’ultimo trasloco come nel finale di questa edizione. Idea, non certo nuova, ma coerente sbocco dello spettacolo prodotto dal Verdi per inaugurare (si può ben dire trionfalmente) la propria stagione d’opera e di balletto. Per il titolo passepartout scelto, come altri fanno, in testa al cartellone, il teatro triestino ha ricomposto la formazione vincente e la concordia operativa che l’anno scorso avevano portato al successo I Capuleti e i Montecchi: scene di Alessandro Camera, costumi di Carla Ricotti, regia di Arnauld Bernard ed Enrico Calesso a concertare l’opera verdiana. Qui il luogo del dramma è la cupezza di un vuoto indefinito, investito subito, fin al primo levar di sipario, dal gorgo di una società in preda ai fumi di una ridda impietosa, spettatrice disconnessa della miseria personale di Violetta. Come sarà lancinante violenza l’irruzione del carnevale nell’ultimo atto. La stessa provvisorietà della passione di Violetta e Alfredo è bruciata in un lampo su un letto rosseggiante di foglie morte a ricoprire la lucida superficie a specchio del pavimento. Poi sarà ancora – chez Flora – il turbinio violento del “denaro” a risucchiare nel gorgo la solitudine di Violetta come in un celebre romanzo di Zola. Piove carta-moneta su quella che una volta si diceva (a pensarci bene, non casualmente) la “scena della borsa” così come sull’addio del passato scenderà neve di carta: una fitta nevicata di quelle di una volta, da vecchio teatro come in Bohème e Fanciulla. Nell’impianto scenico funzionalmente minimale di Alessandro Camera la regia di Bernard non resiste a certe tentazioni in eccesso (specie nel prefigurare — con il solito impiego del “doppio” — i guasti fisici della protagonista durante il preludio) ma la continuità drammaturgica vi è svolta in logica serrata sempre sulla musica. Mi pare merito precipuo il coinvolgimento della massa di coro e figuranti, mossa dagli stessi impulsi e dal flusso della musica in un “non luogo” intorno agli anni cinquanta, che favolosi allora si dicevano (e difatti Carla Ricotti veste Violetta come Lana Turner) quindi in un periodo intermedio in cui sono ancora radicate la condanna morale, le convenzioni e la società che le agita, soprattutto quella che nel finale secondo mette in scena non più zingarelle e mattadori, ma inscena sé stessa e la propria sfrenatezza con quella ambiguità dei sessi che furoreggiava fin dagli anni venti. Sicché Bernard ne fa un numero esemplare, un occhio al Lido (quello parigino) un occhio a Salò (quello pasoliniano), un po’ di Cabaret e un po’ di Kabarett. Dove l’umiliazione di Violetta è spinta ai margini per assumere ancor più spietata evidenza. È tuttavia la misura stilistica dell’esecuzione musicale quella che garantisce la grande arcata di respiro e l’esito di questa edizione.
La direzione di Enrico Calesso rivela un lavoro millimetrico sulla partitura con un’orchestra di palpitante duttilità, uno sbalzo dei contrasti che evita per altro ogni iperbole ed una ricchezza di fraseggio che regala al palcoscenico tinte sulle quali il canto può trovare le condizioni più desiderabili. A cominciare dal flessuoso “Un dì felice, eterea” intonato da Antonio Poli, Alfredo di ammirevole smalto e di autentici “bollenti spiriti”. Per non dire delle morbidezze distillate nel secondo atto e nel finale a beneficio della protagonista Maria Grazia Schiavo. La cantante napoletana sfoggia un’organizzazione vocale ed una musicalità agguerritissime anche nelle insidie del primo atto mentre sul versante lirico dispiega tutta la morbidezza della sua vocalità solare. E poi arriva il “D’Alfredo il padre in me vedete” scolpito da Roberto Frontali. E allora il senso verdiano della mitica “parola scenica” si palesa come le tavole della legge teatrale e di qui fino all’impeto severo e memorabile di quel “Di sprezzo degno sé stesso rende” che è come un monumentale ceppo messo ad ardere sul fuoco. Con la Annina di Veronica Prando e la Flora di Eleonora Vacchi, tutti ben tipizzati con originalità i ruoli di fianco.
Gianni Gori
Foto: F. Parenzan