MASSENET Werther B. Bernheim, J.S. Bou, A. Noguera, V. Karkacheva, F.P. Vitale, R. Briand, E. Martinez-Castignani, E. Verzier; Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Alain Altinoglu regia Christof Loy scene Johannes Leiacker costumi Robby Duiveman
Milano, Teatro alla Scala, 10 giugno 2024
L’opera francese nel dopoguerra alla Scala — Carmen e forse Faust a parte — non ha mai avuto grande spazio: di Massenet, se non erro, si sono ascoltate solo la recente Thaïs, Manon e Werther, che pure mancava dal 1980, protagonista Alfredo Kraus. Ad un’attesa così lunga, però, è corrisposto un risultato di eccellenza quasi assoluta, che ha reso questa produzione una delle migliori dell’attuale stagione scaligera. Il “quasi” — leviamoci subito il dente — è legato alla presenza del giovane mezzosoprano russo Victoria Karkacheva, la cui affascinante presenza scenica, ancor più esaltata dagli stupendi abiti anni ’50 disegnati in questo allestimento, non è di pari livello rispetto ad un canto che trova bello sfogo in acuto, ma è assai debole nei centri e nei gravi. Ciò non sarebbe un gran problema per Charlotte, ruolo affidato sia a soprani che a mezzi (e la Karkacheva a me pare un soprano corto), ma lo è invece una dizione del tutto incomprensibile, che quindi non può incidere con la dovuta efficacia su un fraseggio piuttosto generico: e soprattutto stride avendo ella al suo fianco un tenore come Benjamin Bernheim che, ai molti pregi, somma quello di una chiarezza esemplare della pronuncia. Perché, alla fin fine, il canto di tutta la storia dell’opera francese, e del drame lyrique in particolare, parte sempre dalla parola: ed è con grande gioia che finalmente torniamo ad avere un tenore madrelingua degno di una grande tradizione (da Thill ad Alagna, passando per Muratore, Vanzo e tanti altri) che sembrava inaridita: la voce di Bernheim è chiara, piuttosto fredda e apparentemente delicata, ma capace di aprirsi in acuti di grande intensità sonora (i celebri La diesis del Lied d’Ossian) e di sfumare con una naturalezza che rifugge da ogni compiacimento, da ogni belluria tecnica.
Se il modello è, probabilmente, quello che Kraus ha ereditato da Thill, devo dire che Bernheim va oltre: il suo Werther appare già nell’iniziale Invocazione alla natura già “oltre”, quasi prosciugato emotivamente e segnato fatalmente da un destino di cui è ben consapevole e che non può evitare. Un protagonista introverso, decadente, intensissimo: ed un ritratto di travolgente forza emotiva. Professionale, poi, l’Albert di Jean-Sébastien Bou e una vera rivelazione la Sophie di Francesca Pia Vitale, che in accordo con la visione di Loy spazza via ogni traccia di coquetterie infantile per donare una dimensione di umanità profonda e solare al suo personaggio, attraverso un canto di luminosa solarità. Buono l’apporto di tutti i comprimari e ancora migliore quello dei sei bambini, guidati dal sempreverde Bruno Casoni. A guidare tutti dal podio c’era Alain Altinoglu: che con Bernheim condivideva una visione radicalmente anti-sentimentalistica del capolavoro di Massenet, con tempi piuttosto mossi e sonorità che vibravano di una traslucida, notturna intensità. Amplissimo, poi, lo spettro dinamico cui ha sollecitato l’orchestra scaligera (in ottima forma), fino all’intermezzo tra terzo e quarto atto che si è rivelato pagina di inquietante mobilità armonica e strumentale.
Infine, lo spettacolo di Loy: inquadrato in una scena fissa molto semplice (e molto “alla Loy” per geometrie e colori), divideva con estrema efficacia il mondo dell’intimità domestica, della gioia degli affetti, dei sentimenti semplici (quello della famiglia: e lì Werther non potrà mai entrare, se non per uccidersi alla fine) e quello esteriore, da esso diviso con un’ampia porta, in uno spazio che non si capisce se sia interno o esterno. Portato in un’ambientazione anni ’50, questo Werther è organizzato secondo un perfetto gioco di simmetrie che cristallizzano e sottolineano i rapporti tra i personaggi, arricchendone la psicologia: Albert al suo entrare prova un approccio con Sophie, la quale è evidentemente innamorata di Werther. E la scena finale — dopo che Charlotte ha fatto leggere ad Albert le lettere, quasi per vendicarsi delle pistole che ha dovuto dare al suo amato — si configura come uno straziante quartetto di sofferenze mute o espresse, tese al raggiungimento di una felicità che era vicina, ma in realtà impossibile (anche Onegin e Tat’jana, d’altronde, cantano “la felicità era così vicina, così possibile”, sapendo forse di mentire). E la nudità dello spazio scenico fa sì che i pochi elementi acquistino ulteriore carica simbolica: a partire da quell’albero di Natale che vediamo lontano, e che rimane un ulteriore miraggio di felicità, o gli stessi abiti del protagonista, che col passare degli atti ne sottolineano l’allontanamento da quel mondo “infantile” cui pensava di appartenere.
Grandi applausi per tutti.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala